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APEF: Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola secondaria di 1° grado
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1. APEF: Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola secondaria di 1° grado
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Parere richiesto sulle
“Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati nella Scuola secondaria di 1° grado” del 24 dicembre 2002.

Il documento di “Indicazioni” si preoccupa innanzitutto di giustificare implicitamente il rifiuto della fusione della scuola elementari e secondaria di 1° grado in un unico segmento indifferenziato, ridotto di un anno e denominato “scuola di base”, operata dalla riforma Berlinguer. In quella Moratti, il periodo scolastico successivo alla scuola elementare, alla quale soltanto spetta la nuova qualifica di “scuola di base”, fa certo parte integrante del primo ciclo di istruzione per il quale infatti si è elaborato un unico profilo educativo, culturale e professionale e un unico esame di Stato alla sua conclusione. Tuttavia, oltre a mantenere la tradizionale durata triennale, se ne sottolinea da una parte la destinazione ad una precisa classe di età e dall’altra la natura “secondaria” del tipo di istruzione e formazione impartite. Per quanto riguarda il primo aspetto, la scuola secondaria di primo grado è destinata ai preadolescenti (“accoglie gli studenti e le studentesse nel periodo di passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza”): questo influenza in modo decisivo i compiti di questo segmento scolastico in ordine a vari aspetti del rapporto educativo. Per quanto riguarda il secondo, il documento si pronuncia per una scuola della ROTTURA SUL PIANO EPISTEMOLOGICO rispetto alla scuola di base (ex elementare), anche se di valore simbolico: rottura “che dispiegherà poi le sue potenzialità nell’istruzione e nella formazione del secondo ciclo”: proprio in questa rottura consiste il conoscere in maniera secondaria. Senza scendere ad una analisi particolareggiata di tale rottura nei suoi vari aspetti, esposti chiaramente nel documento, è senza dubbio CONDIVISIBILE il fatto che ne venga sottolineata la necessità, che attribuisce a questo segmento del primo ciclo una sua specificità e autonomia, che lo sottrae ad una concezione meramente continuista, smentita per un verso dalle stesse trasformazioni psico-fisiche dei giovani, per un altro dalla marcata natura disciplinare degli insegnamenti, anche se aperti all’interdisciplinarità più completa e “al salto transdisciplinare, ovvero il confronto con una visione personale unitaria di sé, degli altri, della cultura e del mondo”.
Nella rottura sul piano epistemologico, la funzione centrale è attribuita al modello matematico-scientifico della realtà, cioè alle modalità attraverso le quali si elabora la descrizione scientifica del mondo, con la costituzione di un modello che rimpiazzi in senso letterale gli oggetti reali. E’ una presa di posizione molto netta, che fa nascere il problema degli “altri modelli” di rappresentazione degli oggetti, del mondo e della vita, diversi da quelli scientifico-matematici, cioè di quelli di natura linguistico-letteraria, artistico-estetica, tecnologica, storico-sociale, etica e religiosa. Il documento li recupera in una prospettiva di “parte e tutto”, come un’altra delle dimensioni che caratterizzano la “secondarietà”di questo segmento dell’istruzione. Tuttavia, l’impostazione generale della rottura epistemologica non fuga l’impressione di una sostanziale subalternità di questi “altri modelli” rispetto a quello matematico-scientifico, anche se almeno verbalmente si dice che “contribuiscono con pari( quando non, in alcuni momenti storici, maggiore) dignità a ricercare verità e a definire la nostra identità culturale”. Questa impressione è accentuata ove si noti che è all’ambito matematico che si attribuisce l’introduzione al pensiero razionale e al linguaggio specifico. A nostro giudizio, a parte la fondatezza “scientifica” di questa sostanziale subalternità, sarebbe stata opportuna una enunciazione generale meno sbilanciata, tenuto conto proprio dei bisogni fantastico-affettivi dei preadolescenti.

Il documento passa poi ad illustrare gli obiettivi generali del processo formativo, individuandone sette. Questi obiettivi formativi sono fondamentali, tanto che poi si specifica che la progettazione di unità di apprendimento sulla base degli obiettivi specifici di apprendimento illustrati nelle tabelle, ne deve essere caratterizzata. Dunque le unità devono tenerli presenti nella loro elaborazione perché senza di essi diventano insignificanti per i singoli allievi. Gli obiettivi formativi in effetti sono tutti condividibili in toto e, se tenuti presenti, possono effettivamente contribuire a fare della secondaria di primo grado una scuola importante e significativa per gli alunni. Molto importante è l’affermazione della scuola della “relazione educativa”, come superamento della concezione della logica di scambio da una parte e quella del mero rapporto dall’altra. Per molti aspetti, si tratta di procedere in maniera più consapevole, organica e coerente nella strada già imboccata dall’attuale scuola media, come risulta dai programmi del 1963 e del 1979 e ancor più dall’effettiva prassi didattica delle scuole.

Lascia tuttavia qualche perplessità l’obiettivo sesto, che espone la funzione della scuola come istituzione della prevenzione dei disagi e del recupero degli svantaggi: almeno per la parte in cui si finisce per attribuirle un compito di supplenza e di compensazione sociale molto difficile e di dubbia efficacia, che corre il rischio di snaturarla, caricandola di incombenze che possono sconfinare nel puro e semplice assistenzialismo sociale.

Il Profilo educativo a conclusione del primo ciclo utilizza gli obiettivi specifici di apprendimento indicati nelle tabelle per progettare unità didattiche di apprendimento. Le tabelle annesse infatti sono le indicazioni nazionali delle conoscenze e delle competenze che gli allievi devono avere acquisito alla fine del primo ciclo. Per quanto riguarda quelle della secondaria di 1° grado, esse sono la base su cui le scuole e i docenti devono operare per l’elaborazione delle unità didattiche di apprendimento, che devono partire da obiettivi formativi adatti e significativi per i singoli allievi. Esse sono ordinate per discipline da un lato e per educazioni dall’altro, che trovano la loro sintesi nell’unitaria educazione alla Convivenza civile. Il documento afferma che il CUORE del processo educativo “ si ritrova nel compito delle istituzioni scolastiche e dei docenti di progettare le Unità di apprendimento”. Si chiarisce, in relazione all’ordine di presentazione delle conoscenze e delle abilità nelle tabelle, che da una parte c’è un ordine epistemologico, che vale però per i soli docenti, come “mappa culturale, semantica e sintattica, che essi devono padroneggiare anche nei dettagli e mantenere sempre viva ed aggiornata”; dall’altro c’è un ordine di svolgimento psicologo-didattico, che vale per gli allievi ed “è tutto affidato alla determinazione professionale delle istituzioni scolastiche e dei docenti, che entra in gioco quando si passa dagli obiettivi specifici di apprendimento agli obiettivi formativi”. La distinzione è molto opportuna per evitare il pericolo di un irrigidirsi delle indicazioni in programmi, che non tengano conto delle specificità personali degli allievi, dei loro ritmi di apprendimento, delle loro esigenze concrete, con ricadute in valutazioni meccaniche. L’autonomia delle scuole può esserne esaltata e valorizzata al massimo grado insieme alla competenza professionale dei docenti. Ma il punto fondamentale è proprio quest’ultima: la complessità delle operazioni richieste dall’elaborazione delle unità di apprendimento e la loro esecuzione comporta una competenza professionale dei docenti e un loro impegno che, nella situazione attuale, è molto dubbio che sia realistico pretendere.

C’è poi da chiarire il rapporto tra i due blocchi di obiettivi specifici di apprendimento. Per quanto riguarda quelli per così dire disciplinari, nulla quaestio, mentre non si comprende bene la natura di quelli relativi alle educazioni. In primo luogo, l’averli riuniti sotto la rubrica “Educazione alla convivenza civile” dà l’impressione di una reductio ad unum meramente nominalistica., che rivela solo il disagio rispetto alla proliferazione incontrollata delle “educazioni”. In secondo luogo, entra in gioco il problema generale della validità di un’EDUCAZIONE DIRETTA, in luogo di quella indiretta cioè mediata dalla formazione culturale, su cui il documento nulla dice. In terzo luogo, c’è il problema del rapporto tra la formazione disciplinare e quella delle educazioni. In realtà l’impressione è che il documento, per questo aspetto si appiattisca passivamente sull’esistente, senza avere il coraggio di cancellare semplicemente queste cosiddette educazioni.. In realtà, infatti, esse sono poi smentite dagli stessi obiettivi formativi specifici, ad esse relative, indicati nelle tabelle. L’educazione alla cittadinanza non è altro che una nuova disciplina specifica, e come tale dovrebbe essere insegnata, e nel suo ambito rientra a pieno titolo la cosiddetta “educazione stradale”; altre rientrano nelle varie discipline, come scienze e tecnologia. Ci si chiede perché i loro obiettivi non possano essere comprese nelle unità di apprendimento delle discipline comuni. Così come sono, tra l’altro, da chi dovrebbero essere insegnate? Di fatto dunque siamo in presenza di un proliferare inutile di discipline quasi tutte spurie e confuse.

L’insieme delle unità di apprendimento effettivamente realizzate, con le eventuali differenziazioni per singoli alunni, dà origine al Piano di studio personalizzato, che resta a disposizione delle famiglie e dei preadolescenti e da cui si ricava anche la documentazione per la compilazione del Portaolio delle competenze individuali.
I Piani di studio personalizzati, definito “appuntamento cruciale delle scuole”, sono elaborati dai “gruppi docenti”: poco chiaro, stante la possibilità anche di gruppi di livello etc., come si costituiscano questi gruppi docenti. L’elaborazione avviene col concorso delle famiglie e dei preadolescenti con l’assistenza del tutor, con la possibilità per le scuole di dedicare una quota fino a 200 ore annuali all’approfondimento parziale o totale di discipline e attività: approfondimento che può cambiare nell’arco del triennio in vista di una scelta consapevole degli indirizzi formativi del secondo ciclo.
I dubbi e i problemi presentati da questa sezione sono numerosi, a partire dalle 200 ore suddette: da dove possono essere prese? L’orario obbligatorio annuale delle lezioni, comprensivo della quota riservata alle Regioni, alle istituzioni scolastiche e all’insegnamento della religione cattolica, è di 900 ore; per trasformate in competenze personali gli obiettivi specifici di apprendimento del primo biennio e della terza classe, le scuole, su richiesta, mette a disposizione dei ragazzi e delle famiglie un’offerta formativa opzionale facoltativa aggiuntiva fino a 200 ore annue, che partecipano alla definizione dell’organico di istituto: da impiegare sia nella prospettiva del ricupero, sia in quella dello sviluppo dell’eccellenza. Le 200 ore di approfondimento parziale si identificano con queste ultime o rientrano tra le 900? E come, in ogni caso, si concilia la facoltatività delle 200 ore opzionali con l’obbligo delle scuole di organizzare per lo studente attività educative e didattiche unitarie che hanno avuto lo scopo di aiutarlo a trasformare in competenze personali le seguenti conoscenze e abilità. Queste 200 ore sembrano finalizzate proprio a questo scopo e dovrebbero essere quindi, anch’esse obbligatorie. Altri dubbi riguardano il momento dell’elaborazione dei piani di studio personalizzati e la loro modifica in itinere. In ogni caso, questi aspetti testimoniano il notevole incremento di complessità del “mestiere” di docente, facendo apparire più evidente la discrasia tra la situazione attuale e le richieste della riforma.
In ombra è la definizione del POF, a cui vengono dedicate solo tre righe. In effetti, il documento fa continuamente riferimento alle responsabilità progettuali della scuola autonoma, ma, al di fuori di questo, non arriva a chiarire in cosa consista il Pof: ci si riferisce genericamente all’ispirazione culturale-pedagogica e ai collegamenti della scuola con gli enti territoriali; si dice infine che “l’unità, ANCHE didattico-organizzativa dei Piani di studio personalizzati SI EVINCONO dal piano dell’offerta formativa. L’impressione è che il Pof sia sostanzialmente un documento a cui non si sa che funzione e posizione assegnare, a parte quelle relative all’organizzazione e alle gestione della scuola.

L’ispirazione culturale-pedagogica infatti si evince già dalle indicazioni e dalle tabelle allegate, dei saperi disciplinari e delle educazioni: non si vede che resti alle scuole da questo punto di vista.
Su altri aspetti, si può dare un giudizio positivo. In primo luogo sull’obbligo di frequenza delle lezioni per non meno di ¾ dell’orario annuale; in secondo luogo su tutta la problematica della valutazione nei suoi vari aspetti, esterna ed interna.

In conclusione, il documento in esame sembra il risultato dello sforzo di “volare molto alto” ma a costo di perdere di vista spesso molto aspetti concreti della vita scolastica. Soprattutto sembra presupporre un corpo docente diverso da quel che realmente è. Questo di per sé non è negativo, se si mette mano immediatamente da una parte ad un sistema di reclutamento coerente e severo, dall’altra ad un’opera di “traduzione” concreta delle enunciazioni così da renderle più operative, entrando anche nel merito dei molti problemi che le indicazioni non mettono bene a fuoco.


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Date: 24 Oct, 2003 on 19:27
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Stato giuridico degli insegnanti:
una svolta da sostenere

Comunque un risultato

La prima valutazione che ci corre l’obbligo di fare, al di là del merito dei due DDL attualmente in discussione in Commissione Cultura della Camera, sostanzialmente identici nei principi ispiratori e nei contenuti, è una valutazione dichiaratamente pregiudiziale. Nel senso che non si può che esultare di fronte al fatto che il Parlamento si sia riappropriato, dopo 30 anni, di ciò che gli compete e cioè la definizione per via legislativa dello stato giuridico che definisca i principi, i valori e gli assetti su cui si basa la professione docente che, proprio perchè fondata sul principio costituzionale della libertà d’insegnamento, non può essere ridotta esclusivamente a materia pattizia.
Queste proposte di Legge, infatti, costituiscono una importante e opportuna inversione di tendenza rispetto alla prassi, in atto dal processo di privatizzazione del rapporto di lavoro avviato con il D.ls. 29/93, per cui la contrattazione ha tanto pesantemente quanto incongruamente sforato i confini riservati alla legge in materia di definizione di principi e funzioni generali della professione docente. Gli esiti sono noti: scarsa valorizzazione sul piano professionale, funzionale e del merito degli insegnanti, quindi accelerazione del processo di impiegatizzazione con relativa percezione di sé che ha portato la categoria verso una demotivazione diffusa, ma soprattutto una mancata aderenza dei Contratti alle nuove responsabilità da definire nell’organizzazione del lavoro didattico coerentemente con i processi di Riforma in atto.
A questa politica miope è da imputare il grave ritardo nell’attuazione dell’autonomia perché, mentre il legislatore riformava le architetture di sistema per avvicinare l’Italia all’Europa, sul piano contrattuale ci si ostinava a lasciare tutto com’è, salvo qualche riverniciatura nominalistica in termini di funzioni e prestazioni dei docenti, essendo peraltro inesistente in questo paese l’ambito della rappresentanza professionale dei docenti, ambito impropriamente usurpato nelle funzioni dai sindacati di comparto.
Per interrompere questa spirale perversa l’Apef, insieme a buona parte dell’Associazionismo professionale degli insegnanti, ha perorato più volte un intervento del Parlamento su questa materia e riteniamo quindi che la presentazione di questi due DDL, giunti dopo numerosi ordini del giorno in occasione dell’approvazione della Legge 53/’03, rappresenti di per sé comunque un risultato importante.
Gli insegnanti disperavano infatti di vedere riconosciuto un concetto come quello che leggiamo nella relazione introduttiva: “ …L’insegnante non è un soggetto perfettamente fungibile ad ogni trasformazione strutturale, normativa e organizzativa della scuola. Ne è invece l’elemento costitutivo, soprattutto quando il sistema in cui esso opera si avvia a rapidi e continui cambiamenti”.
Che tradotto prosaicamente vuol dire che finalmente ci si è accorti che non si possono scaricare le riforme sulle spalle dei docenti senza fornire loro almeno gli strumenti necessari per attuarle.

I contenuti

Questo dispositivo, che ha le caratteristiche di una Legge quadro con regolamenti attuativi affidati al Ministro, contiene tutti quei principi che chi ha una visione dell’insegnamento come professione basata su un’autonomia che va garantita e valorizzata, non può non accogliere favorevolmente.
• In essa vi è contenuto il principio che i criteri dello stato giuridico debbano essere estesi a tutti gli insegnanti del Sistema pubblico (statale e paritario) e, aggiungeremmo noi, andrebbero estesi anche a tutte le tipologie di insegnanti in qualsiasi contesto si trovino ad esercitare.
• Vi è contenuta, finalmente, una prospettiva di carriera basata su tre livelli: tirocinante, docente ordinario e docente esperto a cui si accede tramite formazione e concorso. Le funzioni del docente esperto sono proprio quelle che consentono di affrontare quella complessità che l’Autonomia delle scuole ha introdotto: tutoring e aggiornamento dei colleghi, coordinamento di Dipartimenti e di progetti, valutazione interna e interfaccia con il Sistema di valutazione nazionale, rapporto con le Università per la formazione iniziale.
Una leadership professionale, insomma, preparata per guidare i processi di rinnovamento.
• Viene finalmente inserito un principio di valutazione delle prestazioni, proprio di una dimensione professionale che trova anche la sua più peculiare espressione nell’istituzione di un Albo professionale nazionale (e regionale), come organo di garanzia e di autotutela.
Ma il Disegno di legge non si limita solo a questo, rivoluziona letteralmente il sistema della rappresentanza della categoria professionale, analogamente a quanto avviene nelle altre categorie professionali dello Stato:
• vengono previsti infatti Organismi tecnici (nazionali e regionali) elettivi, rappresentativi del pluralismo tecnico e culturale dei titolari della funzione docente. Questi organismi curano uno dei tre ambiti della definizione della professionalità docente e cioè quello più propriamente professionale: tengono l’Albo nazionale, stabiliscono criteri per la formazione iniziale, per l’abilitazione e per il tirocinio, nonché gli standard professionali dei docenti. Redigono e tengono aggiornato il codice deontologico, occupandosi delle eventuali devianze, esprimono pareri obbligatori sui criteri di valutazione e sui mezzi per il raggiungimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di Istruzione.
• E’ altresì valorizzata la funzione consultiva delle Associazioni professionali in merito alla didattica e alla formazione sia iniziale che permanente.
E il legislatore, forse legittimamente rispondendo ad una recente, incredibile, norma inserita nell’ultimo contratto che impedisce riunioni in qualsiasi tempo e luogo delle istituzioni scolastiche a docenti che non appartengano alla pentamurti rappresentativa, ha sentito l’esigenza di dover rimediare specificando che: “ I docenti possono liberamente esprimere all’interno delle istituzioni scolastiche l’attività associativa”.
Come a dire la scuola agli insegnanti e non agli apparati sindacali !
Ma la vera dirompente novità la troviamo nell’art. 7, dove viene proposta in entrambi i disegni di legge:
• l’abolizione delle RSU di istituto, e l’istituzione di un’area autonoma di contrattazione per gli insegnanti, nonchè la definizione delle materie riservate all’ambito contrattuale. Delle prime abbiamo più volte ribadito che sono un istituto da fabbrica esportato impropriamente nella scuola, responsabile della deriva della sua ragione sociale come istituzione educativa e che diventeranno peraltro totalmente inutili nel momento in cui saranno istituiti gli Albi professionali e gli Organismi tecnici rappresentativi degli insegnanti.
La seconda è ormai una richiesta storica ( proposta ben 15 anni fa dal fondatore della nostra Associazione) senza la quale è impossibile realizzare al meglio quella valorizzazione professionale e quello sviluppo di carriera contenuti nella legge di cui il processo riformatore necessita.

Le reazioni

E’ davvero sconcertante il terrorismo che viene fatto dagli apparati sindacali, anche da quelli rappresentativi di soli docenti, quando evocano il fantasma della mancanza di democrazia perché il Parlamento vuole aggiornare lo stato giuridico degli insegnanti come ha già fatto per altre categorie professionali del Sistema pubblico. Oppure quando, nella solita appiattita ottica di mantenimento dell’insegnante-massa, liquida l’opportunità delle carriere addirittura come subdolo artificio del Governo per attuare una logica di risparmi. Mentre nulla dice in termini propositivi, forse perché lo ignora, su come mettere gli insegnanti in grado di gestire il cambiamento imposto dalle riforme, nell’organizzazione del lavoro della didattica, della progettazione, del monitoraggio dei curricula, della valutazione interna e di sistema, ma soprattutto nell’agevolazione e nel riconoscimento di un percorso di crescita professionale che avrebbe anche la funzione essenziale di una rimotivazione del corpo docente.
Ma si sa il sindacato ha come sua prerogativa intrinseca esclusivamente quella della ”tutela” e della tranquillizzazione dei suoi rappresentati, mai quello della loro valorizzazione professionale se non solo in termini di richiesta di aumenti salariali, ovviamente uguali per tutti.
Ma poiché il cambiamento come è noto genera ansia, opporvisi è dunque il percorso obbligato per il sindacato, con il risultato di porsi sempre conseguentemente su posizioni profondamente antiriformiste.
Che questa legge troverà un percorso in salita si è facili profeti a dirlo per il fuoco di sbarramento che la pentamurti sindacale ha già sfoderato (guardandosi bene dal diffondere i contenuti ) e che ha l’unico evidente scopo di pretendere di avocare alla sola fase contrattuale anche le prerogative del Legislatore e degli Organismi professionali.
Pertanto occorrerebbe a nostro avviso passare sopra al fatto che la legge dovrà essere attuata, una volta approvata nei principi generali, attraverso Regolamenti di emanazione ministeriale e non attraverso dibattito parlamentare. Certamente questo percorso sarebbe più auspicabile sul piano della democrazia parlamentare, tuttavia ad un dibattito infinito (nessuno può scordare ben due DDL sugli Organi Collegiali presentati sia in questa che nella precedente legislatura e rimasti, ora come allora, fermi in Parlamento) è da preferire di gran lunga l’approvazione, senza ulteriori ritardi, di una legge che ridia dignità ai docenti come professionisti dell’istruzione.


Settembre 2003
Paola Tonna
Presidente A.P.E.F.


Schede tecniche del Centro studi A.P.E.F.:
i disegni di legge sullo stato giuridico dei docenti

Le ragioni fondamentali che, oggi, rendono pressante una riscrittura legislativa dello stato giuridico dei docenti sono da una parte le necessità del sistema integrato di istruzione e istruzione e formazione, basato sull’autonomia delle scuole, quali emergono in particolare dalla L. 28 marzo 2003, n.53 (Riforma Moratti), ma che già emergevano dal mosaico legislativo della riforma Berlinguer, oltre che dalla concreta prassi “autonomistica”delle scuole; dall’altra il fatto che il vecchio stato giuridico, ex lege 477/1973 è stato demolito dalla successiva “privatizzazione”, o meglio, “contrattualizzazione” del rapporto di lavoro ex D. Legsl. n.29/1993, via via modificato e infine confluito nel D.Legsl. n.165/01.
Per quanto concerne il primo aspetto, l’autonomia delle scuole ed il sistema integrato richiedono un tipo di docente molto diverso rispetto a quello del sistema scolastico centralizzato e verticistico, basato sull’offerta uniforme di istruzione e formazione, rigidamente stabilita dal centro politico decisionale. Il nuovo sistema, infatti, è basato sulla specificità dei piani dell’offerta formativa delle singole scuole in quanto integrante l’offerta del centro con la domanda dei soggetti istituzionali (enti locali) e privati (famiglie e alunni) periferici: si configura come “sistema scolastico misto, dell’offerta e della domanda”, in linea con la tendenza di tutti i sistemi scolastici dell’Unione Europea, con i quali deve condividere, ai fini del reciproco riconoscimento di titoli culturali e competenze lavorative, gli standard generali. Rispetto alle istituzioni scolastiche del sistema, e agli insegnanti in particolare, sostituisce, come criterio di giudizio, al principio “impiegatizio” del mero adempimento burocratico quello della responsabilità professionale nei confronti delle finalità generali del sistema e dei cittadini-utenti. In questo quadro generale, la natura dell’attività dei docenti muta profondamente, arricchendosi per un verso nel versante strettamente pedagogico-didattico, con intensificazione degli aspetti di libertà progettuale e di creatività didattica, per un altro su quello dell’organizzazione gestionale e didattica delle scuole. Ne consegue sia la necessità di incentivare e premiare la maggiore capacità e impegno personale nell’attività diretta con gli alunni, sia di individuare una serie di competenze professionali ulteriori, tanto in relazione agli aspetti strettamente organizzativo-gestionali quanto a quelli riguardanti la caratterizzazione pedagogico-didattica di ogni singola scuola, tenendo conto dei molteplici legami che si instaurano necessariamente tra i due. Occorre infatti tener presente che un sistema di tal fatta è tendenzialmente concorrenziale, perché ogni singola scuola “si propone” nel sistema con una sua autonoma ed articolata proposta, la cui effettiva realizzazione comporta un atteggiamento cooperativo ed una sinergia efficiente tra le varie componenti, ed in particolare dei docenti tra loro e nel loro complesso con i dirigenti.
Per quanto concerne il secondo aspetto, è un fatto che la “privatizzazione” o “contrattualizzazione” del rapporto di lavoro dei docenti, ex D.Legsl. n.29/1993 e successive modifiche confluite nel D.Legsl. n. 165/01, si è tradotta nella progressiva prevalenza del contratto sulla legge nella definizione del profilo professionale docente, ben al di là dei vincoli contenuti nell’art. 2 della legge delega n.421/1992, in forza della quale è stato emanato appunto il D.Legsl. n. 29/1993: vincoli che stabiliscono i confini del campo riservato alla legge e ai principi generali della professione. Ora, la conseguenza più grave, e assolutamente inaccettabile, di questo sconfinamento “contrattuale”, è che mentre un contratto di lavoro dovrebbe semplicemente regolare modi, tempi e retribuzione delle prestazioni professionali, la cui natura è definita a monte del contratto (cioè nel sistema generale che stabilisce i requisiti individuali per una qualifica professionale e le vie per conseguirla e mantenerla), quello dei docenti tende a stabilire anche questa natura. La cosa è tanto più grave in quanto un contratto è sempre il risultato dell’accordo di due parti “private”, mentre un profilo professionale è “pubblico”, tanto più quello dei docenti la cui funzione si riferisce ad uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Essa è pertanto indisponibile ad una trattativa tra le parti e deve essere stabilita per legge, nel quadro costituzionale e secondo il principio di garanzia che lo Stato deve prestare, preventivamente, ai cittadini per tutte le professioni che appunto si riferiscono ai diritti fondamentali. In caso diverso, le parti in trattativa, o quella più forte in una data circostanza, potrebbero contrattualmente modificare la natura della professione secondo i loro “privati” interessi.
I due disegni di legge delega nascono dalla consapevolezza precisa di questi due fatti, e delle loro più vaste implicazioni, ed intendono intervenire organicamente: a giudizio dell’APEF raggiungono il risultato. Delineano, infatti, un sistema professionale organico che risponde adeguatamente per un verso alle esigenze di professionalità docente di un sistema integrato pubblico-privato basato sull’autonomia organizzativa e pedagogico-didattica delle scuole; per un altro ai problemi della rappresentanza professionale dei docenti e a quelli contrattuali.
Per il primo aspetto, dopo la solenne dichiarazione che “la funzione docente è una primaria risorsa professionale della Nazione”, propongono i criteri di un preciso ed articolato “statuto degli insegnanti”, da estendersi ed applicarsi ai docenti di tutte le istituzioni scolastiche e formative del Sistema nazionale di istruzione e formazione (art.2, c.1, lett.a), i cui punti salienti sono: le garanzie dell’autonomia della funzione docente e della libertà di insegnamento, la definizione dei diritti e doveri fondamentali che caratterizzano la funzione docente, l’articolazione della funzione secondo le esigenze della scuola dell’autonomia, la sua differenziazione in tre fasce (docente tirocinante, ordinario, esperto) e le regole di assegnazione alle singole funzioni, la valutazione e verifica delle prestazioni ai fini della progressione economica e di carriera, la determinazione delle modalità e degli strumenti organizzativi e procedurali per assicurare la trasparenza delle attività rese nell’esercizio della funzione docente ai cittadini, ai genitori e agli studenti, la definizione dei rapporti tra funzione docente, compiti dell’organo collegiale dei docenti e dirigenza scolastica.
Come si vede, per quanto riguarda i docenti in sé, differenziazione professionale, carriera, merito sono gli aspetti più innovativi, tesi, attraverso l’articolazione del ruolo, a riconoscere la molteplicità di competenze richieste da una scuola autonoma e il diverso grado di competenza ed impegno con cui si esercita la professione, per la quale, inoltre, si prevede una nuova regolamentazione delle incompatibilità con altre specifiche funzioni, attività e professioni. Per quanto riguarda i rapporti dei docenti con gli altri soggetti necessari alla vita di una scuola autonoma, le due leggi propongono una regolamentazione, assolutamente necessaria, che faccia uscire le scuole dal caos normativo in cui sono precipitate. In particolare si prevede una redifinizione della funzione del dirigente scolastico: non più di tipo prevalentemente amministrativo e burocratico, come in sostanza prevista dall’art. 25 del D.Legsl. n.65/01, ma di tipo educativo-didattico, come leadership educativa.
Altrettanto innovativo è quanto si prevede sul versante della rappresentanza professionale. Le ragioni di fondo sono bene illustrate nelle relazioni, e in quella della Napoli in modo più drastico. Si tratta di costituire un organo di autotutela professionale “che sia la garanzia dinamica dello sviluppo della professione e che sappia escluderne con i mezzi e le tutele opportuni coloro che non possono essere definiti insegnanti” in vista di “un mercato del lavoro che garantisca l’accesso solo a chi ha i requisiti dell’insegnante professionista”. Le due leggi delega istituiscono prima di tutto un albo nazionale dei docenti del Sistema nazionale di istruzione e formazione, suddiviso in sezioni regionali; poi un organo tecnico rappresentativo della funzione docente a livello nazionale, articolato in organismi regionali. La designazione della “maggioranza” dei membri di tali organi, che restano in carica tre anni, è effettuata da tutti i docenti iscritti rispettivamente nell’albo nazionale e regionale dei docenti; una quota è riservata alla designazione delle associazioni professionali dei docenti, e, per gli organismi regionali, dalle Università aventi sede nella regione.
“Le elezioni dei membri sono disciplinate secondo criteri idonei a garantire risultati rappresentativi del pluralismo tecnico e culturale dei titolari della funzione docente” (art.4,c.3).
La funzione di questi organi tecnici è sostanzialmente quella dei corrispondenti organismi degli ordini professionali: tenere l’albo, stabilire gli standard per la formazione iniziale, l’abilitazione e il tirocinio e gli standard professionali generali; redazione e aggiornamento del codice deontologico, intervento nei casi di mancato rispetto di esso; consulenza su tutti gli aspetti del sistema nazionale di istruzione, comprese tecniche e procedure di reclutamento.
C’è da sottolineare che, infine, la prima proposta di legge dedica un articolo specifico all’associazionismo professionale dei docenti, di cui si garantisce la libertà e la valorizzazione a tutti i livelli del sistema: esse devono essere consultate e valorizzate a livello nazionale, regionale e delle singole istituzioni scolastiche nel merito della didattica, della formazione iniziale e permanente.
Il meno che si possa dire è che si propone finalmente l’uscita dei docenti italiani da uno stato di minorità: essi, infatti, nel corso della storia del sistema scolastico italiano dall’unità in poi, sono passati dal controllo occhiuto dello Stato, che li trattava da semplici dipendenti civili, “impiegati civili”, a quello dei sindacati paninvasivi o, in certi casi, a quello nascente dall’alleanza consociativa tra amministrazione statale e sindacati. Per questa via, anche i docenti italiani arrivano al riconoscimento giuridico che la loro è una “professione intellettuale”, da rappresentare e tutelare come le altre che, dall’unità d’Italia, sono riuscite a raggiungere questa meta.
In questa prospettiva, è evidente che le forme di rappresentanza squisitamente sindacale, tipiche dei lavoratori dipendenti, non hanno ragion d’essere. In particolare perdono ogni significato le RSU di istituto: vengono soppresse e sostituite da una per ciascuna regione. Di sindacati tradizionali nelle due proposte di legge non c’è traccia. Si parla tuttavia di contratti, e appunto delle RSU regionali. I contratti sono due: uno nazionale ed uno integrativo regionale e su materie specifiche, rigorosamente fissate dalla legge: in sostanza orari e retribuzioni, e non più l’universo della docenza. I contratti sono specifici per i docenti: non esiste più contratto “di comparto”. E’ probabile che titolari della contrattazione resteranno i sindacati “rappresentativi” secondo le norme vigenti: vale a dire individuati col sistema attuale, anche se questo non appare del tutto coerente col nuovo sistema di rappresentanza tecnico-professionale, anche se le difficoltà possono essere attenuate dalla rigorosa delimitazione delle materie da trattare.
Si tratta di due leggi delega, la cui attuazione concreta è rimessa ai successivi decreti legislativi. E’ chiaro che chi crede alla validità dell’architettura generale disegnata, dovrà vigilare perché i decreti attuativi siano veramente all’altezza. Questo è il compito dell’associazionismo professionale: compito attivo, di sostegno ai disegni di legge, di pressione sulle forze politiche. Ciò che è certo è che, oltre che introdurre veramente nella scuola italiana dei moderni professionisti dell’istruzione, indispensabili per assicurare la riuscita di una riforma basata su un’autentica autonomia, viene messo in discussione sia il potere di apparati sindacali pervasivi sia di un’amministrazione centrale che non vuol cedere il suo potere. La collusione tra queste due “potenze”, sperimentata per lunga tradizione, si darà da fare per non modificare nulla.

Antonio Porcu, responsabile Centro studi A.P.E.F.


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