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LANDIS - INSMLI: INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
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1. LANDIS - INSMLI: INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
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OSSERVAZIONI DEL LANDIS E DELL’INSMLI SUI DOCUMENTI:
"PROFILO EDUCATIVO, CULTURALE E PROFESSIONALE DELLO STUDENTE ALLA FINE DEL PRIMO CICLO DI ISTRUZIONE";
"INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI PERSONALIZZATI DELLE ATTIVITÀ EDUCATIVE NELLE SCUOLE DELL'INFANZIA";
"INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI NELLA SCUOLA PRIMARIA";
"INDICAZIONI NAZIONALI PER LA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO".


A. Prospettive generali

Si propongono alcune considerazioni sull’impianto di base dei documenti esaminati e su alcune prospettive di riforma.

1. Si giudica negativamente la discontinuità fra il primo ed il secondo ciclo (scuola primaria e scuola secondaria di primo grado), che trascura, fra l’altro, le interessantissime esperienze sviluppate dai “progetti Continuità” e dagli “Istituti comprensivi” nei quali, dopo un periodo di incertezze e di adattamento, si sono affermate strategie didattiche che ben supporterebbero l’obiettivo teorico che pur si evidenzia nelle “Indicazioni” e, soprattutto, nel “Profilo”: la formazione di personalità armoniche che solo una scuola non affetta da “salti” pedagogici, epistemici e didattici del sistema scolastico può assicurare.

2. Si solleva con grande preoccupazione la questione dell’obbligo che, distinto nei due canali previsti, allontanerebbe dalla scuola proprio quella cospicua massa di studenti che più avrebbero bisogno di acquisire, al massimo grado di possibilità, saperi, competenze, consapevolezza dei diritti e dei doveri di una cittadinanza attiva. Infatti, se si scende dalla teoria di una formazione compiuta nei primi due cicli capace di far costruire ai ragazzi ed alle ragazze un “progetto di vita” autonomo e fondato sulla conoscenza di sé, si riscontra nella pratica, sorretta da una riflessione attenta, che la scelta di tale “progetto” è comunque subordinata alla volontà delle famiglie che, troppo spesso, decidono per i figli a seguito di considerazioni estranee al profilo formativo effettivamente raggiunto. Il discrimine è, quasi nella generalità dei casi, segnato dalle condizioni sociali, economiche e culturali delle famiglie, che indirizzano i figli verso obiettivi di status oppure di necessità lavorativa.
È vero che l’esperienza dell’innalzamento dell’obbligo al primo biennio della scuola secondaria superiore ha evidenziato molte difficoltà, legate soprattutto all’incongruità di una frequenza in spezzoni di cicli non previsti per coloro che non intendessero proseguire per l’intero corso degli studi, con conseguente evasione oppure disagio di alcuni studenti, ma ciò dovrebbe indurre a ripensare la questione da un punto di vista prioritario: la frequentazione scolastica è comunque necessaria soprattutto per coloro che mal si adattano ad essa, se la si ripensa a fondo. L’esperienza napoletana dei “maestri di strada” è illuminante in proposito.
Sembra del tutto irrealistico, inoltre, pensare ad un avvicendamento “scuola-lavoro”, date le premesse che divaricano i due percorsi dell’obbligo superiore ed, infine, è troppo scarsa nelle scuole, attualmente, la cultura dell’orientamento comunque sopraffatta, quando esiste, dalla volontà delle famiglie che spesso si indirizzano in senso opposto a quello indicato dalla scuola.

3. L’insistita e semplificata valorizzazione del ruolo della famiglia nella costruzione di una scuola rinnovata e capace di raggiungere alti obiettivi, non tiene conto di un’esperienza fin troppo spesso ripetuta e di una difficoltà teorica. La prima riguarda l’ostacolo che talvolta le famiglie rappresentano per le innovazioni formative: molte di esse, infatti, legate al proprio vissuto scolastico, ignare di nuove metodologie e nuovi panorami pedagogici, spesso tendono a considerare negativamente i nuovi percorsi che si propongono per i propri figli, quando non, indifferenti e lontane, preferiscono delegare in maniera completa la formazione scolastica dei loro figli all’Istituzione, comunque guardata come estranea o per incapacità culturale o, peggio, per svalutazione del suo compito che, nella società attuale, appare a molti del tutto secondario rispetto alla priorità di un successo conseguito senza nessun apporto della scuola.
A tali famiglie, che rappresentano una parte non del tutto minoritaria, la scuola deve offrire ascolto e formazione indotta attraverso i figli. Di qui l’aspetto teorico del problema: la scuola deve assolvere al difficile compito di rappresentare la realtà sociale, per incardinarsi in essa pena l’isolamento e l’inefficacia del suo lavoro, e deve, contemporaneamente, prospettare una società futura, ponendo traguardi di civiltà e di miglioramento delle strutture culturali, economiche, sociali che riguardano l’avvenire dei giovani e, attraverso essi, di tutti. In tal senso la scuola deve essere considerata come produttrice, e non solo trasmettitrice, di cultura e, come tale, richiede una valorizzazione ed un investimento di risorse.

4. Le prospettive che si aprono nei documenti che ci sono stati inviati appaiono astratte perché non sono legate a tre parametri concreti finora definiti in maniera disgiunta e piuttosto vaga, o negativa.
Il primo è la possibilità di sostenere la necessaria continuità didattica non soltanto nella singola scuola, come si propone, ma nella stessa classe e per le stesse materie. Nessun piano formativo, anche il più oculato e soddisfacente, può avere successo con l’avvicendarsi nella stessa classe di più insegnanti nelle stesse materie ad ogni anno di corso. È una questione tecnica che ci permettiamo di richiamare all’attenzione: l’obbligo per la scuola secondaria di primo grado, ed in prospettiva per i licei, di 18 ore settimanali per cattedra impone, con il variare del monte orario nelle diverse materie per anno, possibilità di combinazioni limitate all’adempimento di tale obbligo e non lascia spazi sufficienti per adattare l’orario di cattedra alle necessità didattiche di continuità. Tale situazione, inoltre, non offre adeguate possibilità di condurre pratiche che sarebbero necessarie per realizzare quella “visione ad ologramma” che le “Indicazioni”, molto correttamente dal punto di vista pedagogico, prospettano in via teorica: compresenze, lezioni a classi aperte, esperienze di laboratorio e molte altre attività che si basano sul presupposto della flessibilità oraria per gli insegnanti.
Il secondo parametro riguarda la necessità di prevedere, per gli insegnanti stessi, spazi di confronto, di scambio, di messa a punto di didattiche che le Indicazioni definiscono rapidamente “ad ologramma”, di progettazione e verifiche di esperienze, di piani di studio personalizzati, di incontri con esperti, al di fuori delle scansioni rigide previste; sarebbero anche necessari incontri fra le scuole per quella continuità verticale che rappresenta un bisogno concreto della realtà e che sembra quasi ignorata come problema nei documenti proposti. Non appare poi chiaro il livello di autonomia che si potrà riconoscere ai docenti, ai consigli di classe ed alle scuole, viste le prospettive del decentramento anche in materia scolastica, che affida alle Regioni compiti d’indirizzo formativo (vedi le sperimentazioni in atto) e di sostegno. Senza margini concreti di autonomia, al di là delle affermazioni di principio, non si potrà attuare quella parte piuttosto oscura delle “Indicazioni” che sottolinea la difficile ma indispensabile convergenza di standard nazionali e di didattica individuata nella cornice concreta dell’azione pedagogica (obiettivi specifici di apprendimento nazionali ed obiettivi formativi personalizzati).
Il terzo parametro riguarda la contraddizione fra una massa di indicazioni di processo molto ricca ed articolata e il restringimento della durata annuale delle quote orarie di lezione, in generale e per le singole discipline.

5. Al fondo dei documenti esaminati appare molto evidente un’aspirazione piuttosto astratta: i richiami ad obiettivi di alto spessore teoretico-metafisico fin dalla Scuola primaria (la distinzione tra “bene e male”, le domande sull’Universo, sui fondamenti dei grandi valori estetici, morali, religiosi) che appaiono inadatti ad un insegnamento non predicativo, ma che tenga conto delle specifiche potenzialità delle età considerate. Si rischia, cioè, contro la finalità espressa di far costruire ai bambini ed ai ragazzi una consapevolezza autonoma, di indurli ad accettare acriticamente, e quindi spesso in maniera pericolosamente distorta, i risultati apodittici di un pensiero adulto. Gli esiti prospettati, accettabili se fondati su convinzioni introiettate in un percorso armonico lungo e compiuto gradualmente come maturazione personale destinata ad evolversi per tutta la vita, rischiano di ricadere in una sorta di dettato didascalico, se forzatamente richiesti in tali età, legate all’elaborazione di un sapere che non si produce se non legato ad abilità concrete. Si dovrebbero piuttosto, a questi livelli di scolarità, predisporre motivazioni e prerequisiti cognitivi capaci, nel tempo, di orientare criticamente la costruzione delle basi civili, etiche, cognitive della coscienza.

6. In tutto il processo di riforma sarà indispensabile creare le condizioni di una formazione continua dei docenti autocentrata, elaborata attraverso la conoscenza delle esperienze più motivate e riuscite della scuola, oltre all’opportuno contatto, non in via subordinata, con i centri di ricerca didattica e di produzione scientifica. Non sembra che questo percorso sia previsto, se si eccettua la formazione a distanza a cui partecipa una parte dei docenti già in servizio, alcuni volontariamente, senza alcun riconoscimento, nemmeno onorifico, del loro impegno. Ciò rende debole la proposta che pure ha il merito di avvicinare molti docenti ai nuovi linguaggi ed alle nuove tecnologie, che la pedagogia attuale sta studiando con grande impegno nei loro riflessi sulla didattica (Olson, Greenfield, Papert, Harel ed altri).

B. Indicazioni specifiche per la materia


Epistemologia e didattica

La disciplina “storia”, di cui le nostre Associazioni si sono occupate per decenni dal doppio punto di vista della struttura scientifica e della praticabilità didattica, appare nelle “Indicazioni” come una materia-cerniera fra i due cicli. Nell’esigenza di riproporre il canone cronologico tradizionale e di non comprimere in una doppia ciclicità il percorso storico, la successione degli eventi viene distribuita fra i due cicli qui considerati. Ciò, nell’assenza di una logica curricolare verticale, può far gravare sulla disciplina lo stacco epistemico e pedagogico fra le due fasi del percorso scolastico, abbandonando alla sola cronologia il compito di un raccordo coerente, ponendo in grave difficoltà l’esigenza che “l’ordine epistemologico di presentazione delle conoscenze e delle abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento non [vada] confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico e didattico”.
Il semplice elenco di obiettivi proposti nelle “Indicazioni” non è sufficiente a garantire, nell’assenza di una esplicita articolazione matetica, della gradazione delle opportunità di apprendimento interne alla struttura della disciplina, lo svolgimento di un percorso al riparo di cambi sostanziali di guida e di quadro di riferimento.
La stessa distinzione tra “ordine epistemologico” (espressione, fra l’altro, impropria) ed “ordine psico-pedagogico” è il segno di una scissione pericolosa, perché se il secondo non ha le sue radici nel primo, è semplice degradazione della materia scientifica a pura narrazione sequenziale degli eventi. Affidare la ricomposizione ad insegnanti diversi e spesso divergenti nelle opzioni didattiche, sarebbe pura utopia e, dunque, resterebbe il dettato delle “Indicazioni” a condurre il cammino dei docenti alla maniera dei vecchi “programmi”. Ma qui si incontrano altre difficoltà.
Ad esempio, nella scuola primaria, secondo e terzo anno, con bambini entrati anche precocemente nella scuola, il passaggio da “testimonianze di eventi, momenti, figure significative presenti nel proprio territorio e caratterizzanti la storia locale” a “la terra prima dell’uomo e le esperienze umane preistoriche: la comparsa dell’uomo, i cacciatori delle epoche glaciali, la rivoluzione neolitica e l’agricoltura, lo sviluppo dell’artigianato e primi commerci. Passaggio dall'uomo preistorico all'uomo storico nelle civiltà antiche. Miti e leggende delle origini” non può essere mediato solo dalla serie di obiettivi concomitanti, nello stesso anno di corso. È la struttura del pensiero bambino che non può reggere questo salto di millenni nella totalità dello spazio terrestre, incomprensibile se si è appena finito di lavorare su semplici concetti di misurazione del tempo e su piccoli brani di memoria locale. La successione canonica del percorso storico, la cosiddetta “storia generale”, non risponde ad un “ordine psico-pedagogico”, anzi lo capovolge: non è più “semplice” la storia antica per i più piccoli, se non la si vuole ridurre ad un raccontino banale, che le fa perdere tutta la sua significatività. Occorrono, modificando la collocazione nel percorso, strumenti di mediazione di cui nelle “Indicazioni” non c’è traccia. Lo spunto di una partenza dal vicino, visibile, presente richiede una mediazione più robusta con il lontano, con il quasi invisibile, con il passato, attraverso un apparato critico, anche se intuitivo, che serva a comprenderli.
Ancora: in generale, ma in modo più evidente per l’età contemporanea, si sorvola sugli elementi di conoscenza economici, sociali, ambientali, culturali (in senso ampio) e tecnologici che maggiormente rendono conto della realtà, soprattutto di quella attuale. La Rivoluzione industriale è in ordine cronologico - ma non di grandezza - dopo la Rivoluzione agricola la seconda decisiva svolta dell’intero corso della storia. La prima viene presentata in un momento in cui l’età impedisce di comprenderne le implicazioni decisive, la seconda viene completamente trascurata. E si potrebbero analizzare altri tratti del percorso in questo senso.
Altro punto critico appare la scissione fra la definizione della storia proposta come narrazione di eventi e il suo senso profondo, che è la capacità di porre domande al passato, anche semplici, e di cercare e trovare le risposte, anche semplici. Solo dopo di ciò si può comprendere il senso della narrazione.
Un’altra questione riguarda la separazione della storia dalla geografia, tanto più incomprensibile in quanto nelle stesse “Indicazioni” si parla di “sistema ecologico” che presuppone una visione globale dei problemi. È da tempo che la storiografia stessa, e di conseguenza la didattica della storia più avvertita, parlano del rapporto inscindibile fra storia, geografia e scienze sociali. Queste ultime, poi, vengono rinchiuse in una “educazione” a parte, che ritorna molto sui già confusi, ed incerti, passi dell’Educazione civica e che non comprende le prospettive interculturale, alla pace, allo sviluppo e alle pari opportunità. La scomposizione delle cattedre, derivante dalla disciplina oraria rigida, renderebbe ancora più problematica la connessione necessaria fra le discipline, per quanto auspicata.
Occorre, dunque, strutturare meglio il rapporto fra episteme e paideia. Gli insegnanti dovrebbero essere messi in grado di accedere allo stesso contenuto storico per vie diverse da quelle qui prospettate in modo insufficiente. Per tale motivo andrebbe riconosciuta la dimensione laboratoriale dell’insegnamento della storia che apre ad una pluralità di linguaggi e di prospettive la costruzione del sapere.
Sembra poi un inopinato ritorno a decenni fa la proposizione di “esempi illustri” per rafforzare la potenzialità formatrice della storia. È questo uno dei casi in cui la struttura epistemologica della disciplina, per come si configura oggi, è in forte contrasto con l’impianto pedagogico delle “Indicazioni”. Il passato esplicita la sua lezione per il presente non “attraverso l’universalità dei personaggi creati dall’arte (poetica, letteraria, cinematografica, musicale…), che hanno contribuito ad arricchire l’umanità di senso e di valore” ma attraverso la consapevolezza che, oggi come ieri, la storia è una serie di vicende collettive, in cui tutti i soggetti, in qualunque collocazione, hanno un ruolo, e che il valore delle loro scelte, nel campo di possibilità dato, decide la sorte del vivere civile. Questo punto di vista ottiene l’effetto di far comprendere che nessuno può ritenersi escluso dalla storia, e dunque ne porta, in misura anche piccola, la responsabilità. La prima affermazione, se non la si intende come la riproposizione, che sarebbe davvero grave, dei “medaglioni dei personaggi illustri” di un lontano passato pedagogico, potrebbe appartenere ad una visione hegeliana della storia (“lo spirito del mondo a cavallo”). La seconda, che include nella storia tutti, può ricondursi ad una moralità di tipo kantiano, che fonda la responsabilità nella coscienza. Tale posizione, fra l’altro, apparirebbe più coerente con alcune affermazioni contenute nel “Profilo” finale del percorso esaminato.


Questioni storiografiche generali

Le “Indicazioni” esprimono l’esigenza di dare “consapevolezza, sia pure in modo introduttivo, delle radici storico-giuridiche, linguistico-letterarie e artistiche che ci legano al mondo classico e giudaico-cristiano, e dell'identità spirituale e materiale dell'Italia e dell'Europa […] per comprendere, da un lato, le caratteristiche specifiche della civiltà europea e, dall’altro, le somiglianze e le differenze tra la nostra e le altre civiltà del mondo”. Altrove si parla di “identità europea”.
Quanto alle radici storico-giuridiche, che riguardano la disciplina, la procedura appare incontestabilmente legata ad un processo che va dal passato al presente, sorvolando sulla sottolineatura di snodi fondamentali, ed includendo in un “lunghissimo medio-evo ideale” fasi importanti della storia (ci sono radici germaniche, ad esempio, nella nostra civiltà, e radici arabe, quanto a culture ed etnie e, più recentemente, sono attecchite anche radici culturali di origine angloamericane; ci sono radici medioevali ed illuministiche, per quanto riguarda le istituzioni ed i modi della convivenza civile, per fare solo qualche accenno).
Il discorso storiografico-didattico dovrebbe, a nostro parere, essere capovolto: sono le domande del presente che guidano alla ricerca delle risposte nel passato. E la domanda del presente, come si può anche leggere nelle “Indicazioni”, è una domanda di dialogo, di democrazia, di fratellanza, una domanda quindi sui “diritti umani”. Dunque, non è nel mondo greco, che collegava il demos al ghenos, e neppure nel mondo romano, che solo al suo tramonto riconobbe la cittadinanza a tutti i suoi sudditi, che si possono trovare tali radici. Altre sì, pur essenziali, che vanno valorizzate e trasmesse, ma non queste.
E non è nemmeno alla storia delle religioni che si può ricondurre questo capitolo della storia umana: alla grande lezione spirituale giudaica e cristiana non corrispose sempre, nella concretezza della storia delle civiltà occidentali, un’adeguata risposta di fratellanza, giustizia e solidarietà.
La storia dei diritti umani è molto più recente, è frutto delle stagioni costituzionali dal XVII secolo in poi, dell’affermarsi dei popoli come portatori di diritti e di doveri, che misero anche a frutto aspetti della lezione giudaica e cristiana del passato. La consapevolezza dell’identità europea è costruzione del presente, ed è nel presente che deve porsi il punto di osservazione della storia anche più remota, al fine di acquisire “gli strumenti di giudizio sufficienti per valutare se stessi, le proprie azioni, i fatti e i comportamenti individuali, umani e sociali degli altri, alla luce di parametri derivati dai grandi valori spirituali che ispirano la convivenza civile”. I grandi “valori spirituali”, al di là dell’intimo significato per la coscienza di ognuno, si concretizzano oggi, per quanto riguarda la “convivenza civile”, soprattutto nell’affermazione dei diritti umani. Tutto il percorso della storia può condurre, dal presente al passato e dal passato al presente, a comprendere quest’esito, né finale né definitivo, ma tale da rendere possibili le grandi scelte del futuro. Si ritiene che la sottovalutazione di tali questioni abbia indotto gli estensori delle “Indicazioni” ad una riduzione eccessiva del peso specifico della storia contemporanea (dal 1960 prevista in Italia “fino ai nostri giorni” e mai effettivamente insegnata finché il carico di programma dell’ultimo anno non è stato alleggerito), generando un’anomalia che potrebbe allontanare l’impianto della disciplina storica insegnata in Italia da quello che generalmente vige in Europa.
Infine, l’accenno alla mondialità nel “Profilo” appare sfuggente ed incongruo con tutto il resto. Ed è invece nella prospettiva mondiale (si badi, non nella conoscenza puntuale di tutte le storie degli altri popoli) che trova logico compimento il percorso che, in termini spaziali, viene delineato dalle “Indicazioni” attraverso le dimensioni locale, nazionale, europea. Del resto, la questione della mondialità come orizzonte globale è già da tempo all’attenzione dei congressi internazionali degli storici ed è presente in molti pronunciamenti della Comunità europea sulla questione dell’insegnamento della storia. Non tenerne conto significherebbe optare per una miopia pedagogica e storica; tenerne conto vorrebbe dire ripensare a fondo l’intero quadro delle Indicazioni, per gli aspetti legati ad una concezione acritica del concetto d’identità.

Per il LANDIS
la presidente Aurora Delmonaco


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Date: 17 May, 2003 on 20:55
LANDIS - INSMLI: INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
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