È giusto lo stipendio degli insegnanti?
L' Euroalibi dei prof

di Alfredo Recanatesi

Cinquecentomila lire, al mese s’intende, per equiparare il trattamento degli insegnanti italiani alla media europea. Questo chiedono gli stessi insegnanti, forse convinti che sia giusto così, forse per lanciare una provocazione agganciata a qualche parola di troppo che sulla questione ebbe a dire l’ex ministro De Mauro, forse per acquisire una posizione nella trattativa. Non entriamo nel merito della richiesta, ma la assumiamo come episodio di un costume generale largamente praticato: quello di usare l’Europa come argomentazione dialettica di comodo, assumendone alcuni paradigmi e ignorandone deliberatamente altri. E’ indubbio che l’integrazione europea postuli una armonizzazione che va ben al di là dei famosi parametri di Maastricht.

Uno degli scopi dell’unione monetaria è proprio quello di eliminare da ogni confronto condotto sui valori monetari la variabilità e l’indeterminazione nel tempo dovuta al cambio tra diverse monete: un euro ora è un euro in Francia, in Spagna, in Germania, in Italia, e così la significatività di ogni raffronto fa un passo avanti verso la trasparenza e la incontestabilità. Ma questo non può voler dire che il prezzo di un bene o la remunerazione di una prestazione debba essere uguale dovunque valga la stessa moneta.

E’ vero, di mezzo non c’è più un tasso di cambio a complicare le cose, ma la confrontabilità continua a passare per funzioni complesse che non possono essere ricondotte sempre e comunque a una quantità di moneta. Ad esempio, se quella quantità di moneta ha un diverso potere d’acquisto già nelle varie regioni di uno stesso Paese, figurarsi tra Paesi diversi: un euro è un euro, si è appena detto, ma per ciò che può comprare quell’euro vale più a Catanzaro che a Milano, e a Milano più che ad Amburgo. Quell’euro è diverso anche in funzione dello Stato che deve pagarlo: per lo Stato italiano, stretto tra una elevata imposizione fiscale e gli interessi da pagare su un debito elevatissimo, un euro da pagare pesa di più che per la Germania, il cui indebitamento è proporzionalmente la metà, o per la Francia, il cui debito è ancora più basso.

Insomma, nel conto occorre mettere tutto, tutto l’avere e tutto il dare, ammesso che ogni componente dell’uno e dell’altro sia oggettivamente quantificabile, il che certamente non è, non essendo riconducibile a cifra la qualità dell’insegnamento o, più in generale, il ritorno per la collettività dell’onere che si assume per il funzionamento della scuola. Fatto sta che negli ultimi anni questo onere è già cresciuto più che per altre categorie, sulla base di prospettive di qualità e di efficienza che, per altro, non si possono dire integralmente realizzate. Sicché, se mettiamo tutto nel costo, forse dovremmo constatare che sì, lo stipendio mensile di un insegnante italiano è inferiore a quello di un insegnante tedesco o olandese, ma senza poter concludere per questo né che la collettività italiana abbia fatto meno per gli insegnanti della sua scuola, né che da questi abbia ricevuto di più, né che l’integrazione europea possa essere asservita a sostegno di un aumento di stipendio.