Università: più donne e più studenti lavoratori

Rapporto sugli atenei. Il ministro Moratti: le novità funzionano, il problema è che troppi docenti hanno oltre 50 anni

ROMA - Non è vero che «se ti metti a lavorare adesso finirai per non laurearti mai più», come si raccomandavano le famiglie fino a qualche tempo fa. Oggi uno studente universitario su due lavora, anche se spesso in modo saltuario (54% contro il 46% degli studenti «a tempo pieno»). Nove su cento, poi, hanno un impiego stabile. Tutto questo a fronte di un numero di laureati cresciuto del 65% dal 1994 a oggi. E anche se l’età media della laurea è stazionaria (quasi 28 anni), la percentuale di chi arriva al titolo a 5, 6, 7 anni dalla immatricolazione è aumentato dal 32% del ’94 al 52% del 2001. Cambia la figura dello studente-tipo. E in modo radicale. Per fare un esempio, non è detto che i maturi che non si iscrivono subito non lo faranno più. È vero il contrario. Magari ci si guarda intorno, si fa qualche lavoretto, per poi decidere che è meglio continuare gli studi. Nel 2001-02 ben il 28% degli immatricolati aveva dai 22 ai 25 anni.
Le donne, quelle sono invece una conferma. Sia iscritte sia laureate, sono sempre di più. Il 55,1% sul totale delle immatricolazioni nell’anno 2001-02, e il 56% sul numero complessivo di chi ha raggiunto il traguardo nel 2001. Il sorpasso è avvenuto anche nella ricerca, dove i dottorati femminili strappano punti (il 51,6% alle donne).
Lo studente lavoratore e la «laurea rosa» sono le vere novità del Quarto rapporto sul mondo dell’università, promosso dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, presidente Giuseppe de Rita. Di questo documento si è parlato ieri alla presenza del ministro Letizia Moratti, che ha sottolineato l’aumento delle immatricolazioni, salite del 12,4%, e la diminuzione del tasso d’abbandono: era il 24,3% nel 1998-99, è stato il 18,5% nel 2001-02.
Secondo la Moratti, in sostanza, l’università italiana migliora, pur se lentamente. E punta l’attenzione sulla ricerca. «Il 55-60% del totale della ricerca è svolta dalle università», dice il ministro. Il problema, semmai, è che «il 35% dei ricercatori, il 50% dei docenti associati e il 65% degli ordinari ha un’età superiore ai 50 anni». Troppi. «C’è bisogno - ha continuato il ministro - di giovani da impegnare in attività di ricerca, considerato che l’età media elevata ci penalizza nel confronto con altri Paesi europei». Il ricambio, insomma, diventa difficile e lento.
Perché? Il punto, lo ammette lo stesso ministro, è quello dei finanziamenti. È chiaro che se per ottenere un dottorato e poi una cattedra occorrono anni, i professori saranno sempre più anziani e i giovani ricercatori sempre più lontani da una carriera strutturata. L’altro dato importante, infatti, riguarda i giovani ricercatori. Ce ne sono moltissimi (ben il 45%) con contratti di collaborazione continuativi, borsisti, assegnisti, ragazzi che spesso dopo anni di duro lavoro non trovano sbocco e lasciano il mondo universitario.
«È ovvio che il sistema abbia bisogno di maggiori risorse», ha riconosciuto la Moratti. Ma è anche apparso chiaro che, in un quadro di disponibilità ridotte, queste risorse non aumenteranno. O almeno non di molto. Saranno perciò «mirate», ha concluso il ministro, e per far questo si dovranno rivedere «i meccanismi di finanziamento delle università».

Mariolina Iossa