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La generazione che non conosce il no
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1. La generazione che non conosce il no
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da La Stampa
Mercoledì 8 Agosto 2001

La generazione che non conosce il no

Famiglie sempre più generose con i figli: è un errore?

ATTO primo. Famiglie a passeggio in villeggiatura: «Mamma, voglio il pescecane di plastica, il mitragliatore ad acqua, una cassetta per il game boy». Madre: «No». «Lo voglio». «Forse domani». «Lo voglio subito». «Te le suono». «Scema». Ceffone. Atto secondo. Stanno tornando in hotel. Lui innaffia tutti con il mitragliatore. Com’è difficile dire no. La sceneggiata dello shopping è una telecamera che ingrandisce la disfida genitori-figli sul consumismo. Disfida che dura tutto l’anno e sempre più vede vincere i piccoli dittatori. Ma che c’è dietro? debolezza o sfinimento? generosità o vie spicce per dimostrare affetto?
Marina Farri Monaco, psicologa, consulente del Tribunale minorile, saggista, ammette che è sempre più difficile dire no: «Una volta era più facile perché erano più definiti i ruoli: la madre per loro e il padre per il lavoro, decisioni e severità».
Oggi l’area materna si è ampliata fagocitando i padri, che nutrono, cambiano pannolini, il che di per sé è positivo: «Ma è anche vero che stempera le componenti aggressive dell’affettività. Finisce che padri ’’più mamma’’ sono meno drastici, meno normativi. Sono in competizione: nessuno dei due vuole essere impopolare».
Sono famiglie frastornate, con meno tempo e più stanchezza. Soprattutto in vacanza si acuisce la fuga dai conflitti: «Dare limiti crea tensioni. Ma così si abdica a una funzione educativa. Pensano: perché farci la guerra all’interno con tutte quelle da fare all’esterno? Una scelta che non costruisce una identità. Avremo ragazzi che scopriranno in età adulta i ’’no’’, con grandi frustrazioni».
Ma i genitori non si sentano condannati: dare molto non è di per sé negativo. Giorgio Chiosso, direttore del Dipartimento di Scienza della Formazione all’Università di Torino: «Molto dipende dal contesto in cui si dà o si nega, giacché i doni dovrebbero portare sentimenti. Il regalo in sé è neutro, tutto dipende da come viene trasmesso e vissuto. E’ nocivo se si sostituisce ai sentimenti».
C’è un segno dei tempi: «Una volta si cresceva con i no. Oggi chi è cresciuto così tende ancor più a dare. Ma l’assenza di rifiuti porterà a un’insicurezza futura, a non sapersi più orientare». Il mondo sarà diverso, come - in modo forzato - quello del protagonista di «Oltre il giardino»: l’analfabeta Peter Sellers non ha conosciuto vita fuori dal recinto e, quando esce, tenta di evitare un’aggressione agendo sul telecomando tv.
Secondo Chiosso, la prima regola è la coerenza: «Non si può trasmettere un sentimento buttando lì una play station e mettendosi in poltrona a leggere il giornale. Non si può mantenere un tasso di vita sfrenato e predicare francescanesimo ai figli. E’ fare una campagna antifumo godendosi una sigaretta».
E’ difficile dire no, ma è frustrante dire sempre sì. Ci si sente deboli, usati, malamati. Chiosso è attento alle distinzioni: «Non è sbagliato dare. Una famiglia senza grandi mezzi che decide di fare sacrifici per accontentare un figlio che vuole il gioco costoso o l’abito firmato che hanno i suoi compagni, fa un gesto pregevole, purché accompagnato dalla coscienza del bambino di quanto sia costato, non soltanto in scelte degli adulti».
Lo sforzo deve essere presa di coscienza: «Capire il meccanismo dei consumi imposto dalla spietatezza degli spot, dove il possesso equivale alla dignità della persona. Un figlio accontentato purché sia rimane invischiato nel vortice dell’ottenere, uno che guarda tirar la cinghia impara qualcosa».
Ma, al di là di sforzi generosi (spesso legati alla paura che i ragazzini si sentano diversi, esclusi), ci sono altre cause per il sì esagerato. Accontentandolo ho conferma di me stesso: lui porta in giro la mia capacità di guadagnare. Dice Marina Farri: «Non ascoltano i suoi bisogni, li usano per esibirsi». Diverso è il caso della «supplenza», del sostituire con oggetti i rapporti: «E’ la famiglia sbrigativa, che vuol comperare una riconoscenza». Così come c’è accondiscendenza da debolezza: «Esiste una sfida di lavoro ai fianchi. L’insistenza che logora la pazienza, dove diventa sempre più evidente che l’unico modo per far cessare la richiesta è accontentarla. Questa è una strada tanto comprensibile quanto pericolosa. A volte ci si fa l’alibi: ha dovuto aspettare dieci giorni. In realtà gli si è mostrato che basta insistere per dieci giorni. Avere ’’muscoli emotivi’’, saper dire un no motivato, spezza quel meccanismo».
Ed è frequente un errore che stimola sempre più a chiedere: «Se ti comporti bene a casa degli amici noiosi ti compro un dischetto per la play station. Se non disturbi durante la cena ti compro la cassetta dei Pòkemon. Se studi per tre mesi ti compro il cellulare». Non un obiettivo da raggiungere, ma una patto gelido: faccio quello che vogliono e ottengo il risultato. Da lì al ricatto opposto il passo è breve: se vuoi qualcosa da me, paga.
Per Chiosso il peggio è la famiglia distaccata, «che compra per routine e consegna come uno sportellista di banca consegna un estratto conto». Esatto opposto della distrazione sono molte famiglie di oggi. Marina Farri: «Quelli di un tempo erano figli che arrivavano perché così andava il mondo. Oggi siamo di fronte ai figli del desiderio, aspettati a lungo, non generati prima perché c’era da pensare alla casa, alla carriera. Quelli cercati, attraverso la medicina o l’adozione, spesso in paesi poveri. Ecco allora la spinta a cancellare qualsiasi dolore, a voler vedere felicità. E’ comprensibile, ma non mandiamoli incontro al futuro illusi e fragili».


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Date: 08 Aug, 2001 on 06:28
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