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«LETTERATURE» A ROMA
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1. «LETTERATURE» A ROMA
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da La Stampa
24 maggio 2003

«LETTERATURE» A ROMA

Il testo che qui in larga parte pubblichiamo sarà letto da Andrea Camilleri a Roma, il prossimo martedì 27, nell’ambito della rassegna Letterature, quest’anno alla seconda edizione. Il reading di Camilleri sarà preceduto da un intervento di Luca Zingaretti, interprete sul piccolo schermo del personaggio di Montalbano. La rassegna si è aperta il 21 maggio con Doris Lessing. Si svolge nella cornice della Basilica di Massenzio al Foro romano e proseguirà fino al 20 giugno. Fra gli autori che interverranno ricordiamo Don DeLillo con l’attore Toni Servillo il 3 giugno, Tracy Chevalier con Monica Guerritore e Daniel Pennac con Silvio Orlando il 5 giugno, Susan Sontag con Laura Morante il 9 giungo, Paul Auster con Massimo Popolizio il 20 giugno.

UNO DEI GRANDI INTERROGATIVI CHE ASSILLANO L’UOMO, TRA FILOSOFIA E NARRATIVA, TEOLOGIA E SCIENZA: CAMILLERI INDAGA
UNO DEI GRANDI INTERROGATIVI CHE ASSILLANO L’UOMO, TRA FILOSOFIA E NARRATIVA, TEOLOGIA E SCIENZA: CAMILLERI INDAGA

IL Tempo con la «t» maiuscola è faccenda complicata assai, tale da sbatterci la testa e rompersela. Ed è un incidente che desidero assolutamente evitarmi. Perché, tanto per fare un esempio, la prima domanda che viene spontanea è: il Tempo c'è stato sempre o è venuto fuori a un certo punto? Pigliamo per buona la risposta di sant'Agostino: il Tempo non c'era, non esisteva prima che Dio creasse il mondo, comincia ad esserci contemporaneamente all'esistenza dell'universo. Così facciamo felici i creazionisti e non se ne parla più. Ad ogni modo, ci sarebbe dunque una specie d'inizio del Tempo, tanto è vero che un fisico come Werner Heisenberg può scrivere che «rispetto al tempo sembra esserci qualche cosa di simile a un principio. Molte osservazioni ci parlano d'un inizio dell'universo quattro miliardi di anni orsono… prima di questo periodo il concetto di tempo dovrebbe subire mutamenti sostanziali». Per amor del cielo, fermiamoci qua e non cadiamo in domande-trappola tipo: allora che faceva Dio prima di creare il mondo? Ci meriteremmo la risposta: Dio stava preparando l'inferno per quelli che fanno domande così cretine. Ma possono esserci domande assai meno stupide, tipo: quando finirà il tempo? Se accettiamo l'ipotesi sveviana di un mondo privo d'uomini e di malattie che continua a rotolare come una palla liscia di bigliardo nell'universo, dove è andato a finire il Tempo? Sant'Agostino tagliava corto affermando che il tempo scorre solo per noi e forse aveva ragione. Il Tempo finirà, come scrive Savater, quando «verrà il giorno che metterà fine ai giorni, l'ora finale, l'istante oltre il quale termineranno le vicissitudini, l'incerta sequela dei fatti, e non accadrà più nulla, mai». Elementare, Watson. Allora da quale lato affronto la questione passato-futuro con un minimo di cognizione di causa? Dal lato filosofico? Ma ci vorrebbe una cultura della quale sono assolutamente sprovvisto. Dal lato fisico-matematico? Vogliamo babbiare? - direbbe il mio Montalbano. Del Tempo riesco sì e no a parlare col metodo che mi è stato insegnato alle scuole elementari, vale a dire l'uso dei tempi verbali. E dovrete contentarvi. Ad ogni modo, presento subito la mia carta di credito, firmata Aristotele, quando afferma, nella Poetica, che il verbo reca in sé, oltre che il senso, soprattutto l'idea di tempo. E infatti il verbo, fin dall'antichità, è stato considerato la parola per eccellenza. Tutto ciò premesso, la constatazione subitanea che mi viene da fare è che sicuramente si stava meglio prima! «Prima quando?» - penso che vi state domandando un pochino imparpagliati. Rispondo subito. Quando, ad esempio, Immanuel Kant poteva scrivere con assoluta convinzione che «è legge necessaria della nostra sensibilità e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il Tempo precedente determini necessariamente il seguente». Oppure quando, per saltare all'indietro dalla metafisica alla fisica, Laplace, nella sua Teoria analitica delle probabilità, del 1814, scriveva che «lo stato presente dell'universo è da considerarsi come l'effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro». E quindi i tempi del verbo, in questo determinismo meccanicistico, si stagliavano nel nostro quotidiano discorso, e perciò nella nostra vita, come i fari che segnalano ai naviganti l'attracco in porti sicuri, in ancoraggi certi. Del resto non c'è stato un grande storico francese che sosteneva come la storia del suo paese fosse stata resa possibile dall'organizzazione definitiva della lingua e di conseguenza dalla netta definizione e distinzione di passato, presente, futuro? Ripassiamoceli, questi tempi verbali, in uso nella lingua italiana, cominciando da quelli che si riferiscono a ciò che è già successo: imperfetto (io ero); passato prossimo (sono stato); passato remoto (io fui); trapassato prossimo (ero stato); trapassato remoto (fui stato). A ciò che succederà, vengono designati il futuro (io sarò) e il futuro anteriore (sarò stato). Risulta evidentissima la sperequazione: cinque modi per dire del passato e due soltanto per accennare al futuro. Dev'essere perché «di doman non v'è certezza», come sosteneva il poeta. E a questo proposito devo dire, di passata, che noi siciliani, nel nostro dialetto, manchiamo completamente tanto del trapassato remoto quanto del futuro anteriore che viene sostituito dal futuro semplice il quale, a sua volta, è usato, avvertono i grammatici, così scarsissimamente che si può sostenere che non venga mai usato. Ha un senso questa assenza del futuro? E perché alla lingua ebraica, lo apprendo da de Saussure, la definizione dei tempi verbali è del tutto estranea, sino a non riconoscere la distinzione tra il passato, il presente e il futuro? Ma insomma, malgrado tutto, Melville poteva iniziare il suo Moby Dick scrivendo: «chiamatemi lsmaele». Frase che sottaceva, dava per scontato il seguito: «perché io sono realmente Ismaele». Il nome coincideva in modo perfetto con l'essere, Ismaele sapeva benissimo chi era e aveva la certezza di esserlo. Lo sapeva perché i tempi verbali che avevano scandito la sua esistenza passata, io ero, io sono stato, io ero stato, o comunque si dica nella lingua inglese, lo portavano inequivocabilmente, necessariamente, a quel presente indicativo: io sono Ismaele. Una sferica, inattaccabile, coscienza di sé. Il romanzo di Melville è del 1851. Ma questo stato di certezze è destinato a durare assai poco, le cose cominciano subito dopo a guastarsi, a farsi meno semplici, il rigido principio della causa-effetto inizia a emettere sinistri scricchiolii. Lo stesso concetto di Tempo, dopo innumerevoli assalti tendenti a una limitazione di quello che potremmo impropriamente chiamare il suo spazio operativo in campo filosofico, finisce coll'essere totalmente negato da McTaggart nel 1908, per il quale il Tempo è una formula assolutamente irreale. E in più, a metterci il carrico da undici, sempre come direbbe Montalbano, suppergiù in quegli stessi anni arriva la vera e propria rivoluzione della fisica quantistica che culminerà nel principio d'indeterminazione, escludendo ogni rapporto di causalità e introducendo il principio della probabilità. Diciamola meglio con un paradosso: non è assolutamente certo, è solamente probabile che da un dato trapassato remoto consegua necessariamente il suo presente indicativo. Sicché, cinquantatré anni appresso Moby Dick, e precisamente tra le ore otto del mattino e le due di notte del 16 giugno 1904, a Leopold Bloom verrà assai difficile dire «io sono Leopold Bloom» con la stessa naturale consapevolezza d'Ismaele. Perché? La solidità dei tempi verbali non è più quella di una volta? Cominciano a incrinarsi, a sfarinarsi? E perché Stephen Dedalus, l'amico di Leopold, sostiene che la storia, cioè il passato, è un autentico incubo dal quale cerca di destarsi? Ulisse di Joyce, del quale stiamo parlando, viene dato alle stampe nel 1922. Passano appena due anni e Joseph K., il protagonista senza cognome del Processo di Kafka, viene arrestato senza motivazioni, improvvisamente, e sottoposto a un severo e misterioso procedimento penale con l'accusa indecifrabile di aver commesso una colpa altrettanto indecifrabile. Dopo aver tentato l'impossibile e disperata azione di rintracciare in un passato sconosciuto o forse inesistente le ragioni dell'imputazione presente, Joseph non può che rassegnarsi alla condanna. Che è la pena di morte, cioè l'abolizione del suo tempo futuro. La condanna verrà eseguita il giorno che Joseph K compirà trentuno anni. Del protagonista, ripeto, non conosciamo il cognome, ne sappiamo solamente l'iniziale, la lettera K che è la stessa del cognome dell'autore. Ma questa coincidenza qui non ci riguarda, o almeno ci riguarda perché quella semplice iniziale non ci permette di conoscere il cognome intero. Ha importanza questa omissione, questa amputazione, chiamatela come volete? Credo proprio di sì. Aristotele aveva scritto che il nome in sé non reca nessuna idea di tempo. Sarà stato verissimo nell'antichità, ma in epoche più recenti è invalso l'uso di dare al nome un plusvalore di memoria, cioè di tempo. A molti neonati viene imposto il nome di una persona cara scomparsa, più frequentemente si dà ai nipoti il nome dei nonni. Che è un senso di continuità nel tempo, cioè nella Storia.
... Se non sempre però il nome porta in sé un'idea di tempo, per dirla con Aristotele, il cognome, che è sorto in epoche assai più recenti, un'idea di tempo ce l'ha e come! Il cognome è il nome della famiglia d'appartenenza, in sé quindi reca la storia, il passato di quella famiglia. Joseph K., per tornare al Processo di Kafka, invece non ha cognome e quindi non ha alcuna possibilità di coniugarsi al di fuori dell'imperfetto, non è in grado di pervenire più né al passato prossimo né al trapassato. Il nome e il cognome rappresentano l'identità storica dell'individuo, tant'è vero che i carnefici degli stermini di massa si sono sempre preoccupati per prima cosa di far perdere questa identità alle loro vittime riducendo la loro identificazione a un numero marchiato sulla carne.
...

Andrea Camilleri


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Date: 24 May, 2003 on 09:45
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