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L’avventura Einaudi
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1. L’avventura Einaudi
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da Il Corriere della Sera
1 maggio 2003

ELZEVIRO I ricordi di Davico Bonino

L’avventura Einaudi

di CORRADO STAJANO

Con eleganza e levità di scrittura, Guido Davico Bonino racconta di un mondo che non c’è più, del clima culturale di un tempo non remoto che sembra invece remotissimo, di personaggi che hanno segnato la storia del Novecento, del lavoro editoriale di una volta, della Einaudi, la casa editrice amata, o meglio odiosamata, che con il catalogo dei suoi libri ha formato più generazioni, di Giulio, l’editore, «altero, bizzoso, caparbio, diffidente, fascinoso, geniale, intelligente (...), litigioso, mutevole, non conformista, orgoglioso, polemico, raffinato, superbo, temerario, vanitoso...». Davico Bonino, critico, professore di Storia del teatro alla facoltà di Lettere dell’Università di Torino, attualmente direttore dell’Istituto di cultura italiano a Parigi, ha scritto un libro senza modelli, Alfabeto Einaudi (pagg. 207, euro 15,50, Garzanti): scrittori e libri, dice il sottotitolo, ma non ci si trova a leggere soltanto un abecedario di incontri, opere e giorni. È piuttosto la scoperta continua di uomini e di donne, di quel che hanno detto, fatto, scritto, passato e presente, debolezze e grandezze, rabbie e umiliazioni, speranze e delusioni. Il libro è anche l’autobiografia involontaria di un ragazzo approdato nell’Italia del boom al tempio della cultura, che si diverte, enfatizzandole, a ricordare le sue «gaffes», i suoi errori, le sue goffaggini, le sue intemperanze in un ambiente difficile dove una virgola veniva sezionata come una lucertola rotta, dove minuzie potevano trasformarsi in occasioni di conflitti epocali capaci di mettere in discussione personalità e intelligenze. Ma dove il senso dell’appartenenza e l’orgoglio della casacca erano fortissimi e gratificanti.
A 23 anni non ancora compiuti, nel 1961, Davico Bonino, supplente d’italiano e latino, aveva scritto di Italo Calvino su una rivista. Calvino gli aveva telefonato, si erano visti in casa editrice. Dopo i grazie per le pagine scritte, Calvino volle sapere se era proprio torinese, di nascita oltreché di formazione e chiese all’esterrefatto Davico Bonino: «Verrebbe a lavorare qui?». Calvino aveva deciso di andarsene, di essere più libero dalle cure del lavoro quotidiano per scrivere due o tre romanzi. «Perché non pensa di prendere il mio posto?».
«Ma io non sono all’altezza» dissi; ed ero perfettamente sincero, «non so neppure cosa sia un capo ufficio stampa».
Comincia l’apprendistato, al fianco di Calvino, il grande maestro che gli insegna il mestiere come un artigiano fantasioso, accanto a quelle che sono state le colonne portanti della casa editrice, Daniele Ponchiroli, l’uomo della precisione lucente, e Giulio Bollati, con la sua ossessione di creatore di libri affidati non alla «scelta», ma al «progetto», i libri che si incasellano in altri libri per servire all’oggi.
E così Davico Bonino entra nei meccanismi segreti, legge, scrive, compila risvolti, fa contratti, incontra autori, è tra i redattori e poi tra i dirigenti più indipendenti e più liberi sotto il mantello di quell’editore capriccioso e volubile. Resterà all’Einaudi fino al 1978, risparmiato da quel che accadrà dopo, le vicissitudini, la caduta.
Il libro è ricco di ritratti e ritrattini. Spesso spiritosi, curiosi. Robert Antelme, autore di uno dei libri più sconvolgenti sui campi di sterminio, seduto a un tavolino nella stessa stanza di Raymond Queneau, da Gallimard, davanti a una montagna di bozze; la figlia della principessa Marthe Bibesco, personaggio proustiano, incontrata nella casa museo di Luigi Magnani, vicino a Parma, che gli chiede dell’ Hypnerotomachia Poliphili , misteriosa opera scritta alla fine del Quattrocento forse da un frate domenicano eretico, Francesco Colonna; Pasolini a Chia, nel Lazio, che quando entra nel suo studio, un padiglione di legno, cambia fisionomia, ringiovanito, felice.
«Il signor Jean Bruller si presentò in casa editrice un qualunque pomeriggio di venerdì». Sembra l’incipit di un romanzo. Vuol vedere la casa editrice che tanto tempo prima pubblicò un suo libro. Un impiegato di banca, un omino grigio. Chi è? Ma è Vercors, il fondatore delle Editions de Minuit , l’uomo della Resistenza, l’autore di quel piccolo capolavoro che è Il silenzio del mare .
Sono tanti i personaggi che popolano il libro, Adorno, Antonicelli, Barthes, Contini, Foucault, la Ginzburg, Lacan, Landolfi, Manganelli, Michaux, Marin, Parise, Rodari, Vittorini, l’«intellettuale più autentico, più onesto e sincero del nostro tempo».
Pare che l’autore, certe volte, voglia mascherare sorridendo la malinconia per tutti quegli amici e compagni morti. Il giorno della fine di Primo Levi ha un ricordo lancinante. Nella sua antologia personale, La ricerca delle radici , Levi aveva voluto, anni prima, inserire la poesia di un ebreo tedesco, Paul Celan. Davico Bonino non ne aveva compreso il perché. Si svelava ora. In un inciso del «cappello» introduttivo della poesia, Primo Levi aveva scritto: «... sulle cui spalle si è accumulato peso su peso, dolore su dolore, fino al suo suicidio...».


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Date: 01 May, 2003 on 13:27
L’avventura Einaudi
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