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Insegnare, cosa? La realtà
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1. Insegnare, cosa? La realtà
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da Tempi
anno 2003 numero 15

Insegnare, cosa? La realtà

Perché un’ipotesi culturale diventi concreta e appassionante occorre che sia vissuta
in modo personale dall’insegnante. Non è la scuola in astratto a educare, ma una presenza umana che renda evidente il fascino di una apertura alla realtà

Non capita tutti i giorni di vedere 1.200 insegnanti riuniti a convegno per discutere dei criteri e dei contenuti del loro lavoro. Quest’anno è successo tre volte, in occasione dei tre sabati per l’aggiornamento promossi dal Coordinamento culturale scuole libere. Iniziato una quindicina d’anni fa intorno a un tavolo, quasi una scommessa sulla possibilità di un reale lavoro educativo, il lavoro del Coordinamento è cresciuto nel tempo fino a coinvolgere centinaia di scuole in tutta Italia. Negli ultimi anni le riflessioni proposte hanno accompagnato in modo costante le contorte vicende della scuola italiana, con contributi critici ma insieme sempre propositivi, come può constatare chiunque consulti il catalogo delle sue pubblicazioni.
Abbiamo chiesto al prof. Grassi, uno dei consulenti scientifici del Coordinamento, di sintetizzare le linee guida del lavoro e le preoccupazioni in merito alla riforma in corso.
Professor Grassi, come giudica la riforma del sistema scolastico recentemente approvata dal Parlamento?
La prima osservazione da fare è che ci troviamo di fronte a una riforma di sistema, vale a dire una ridefinizione di tutto l’impianto dell’istituzione scolastica in funzione di una determinata idea di educazione. Il disegno di Berlinguer muoveva dall’idea di una scuola della competenza: lo studente deve acquisire abilità per potere essere un buon cittadino. La riforma Moratti mi sembra abbia l’ambizione di dar vita a una scuola della conoscenza. Mette cioè al centro l’acquisizione di conoscenze che favoriscano la crescita della persona: la sua capacità di introdursi in modo sempre più personale nella realtà. Il Ministro ha sottolineato spesso nei suoi interventi pubblici l’aspetto della centralità della persona.
Molti hanno però osservato che per ora ci troviamo di fronte a una cornice, mentre il quadro è tutto da tracciare…
Perché questa intenzione si realizzi molto dipende evidentemente dai decreti attuativi. Il pericolo in agguato è l’equivoco che contrappone abilità e conoscenza. È una falsa contrapposizione, che nasce dalla confusione fra conoscenze e nozioni. La scuola della conoscenza è lontanissima dal nozionismo. La conoscenza non è trasmissione di nozioni, ma rapporto con la realtà favorito dall’insegnamento delle discipline: complessi tematici in cui nuclei rigorosi di contenuti e logiche che li connettono e li rendono significativi sono assolutamente inseparabili. È questo che rende possibile la crescita della persona.
Lei ha usato il termine “significativo”: quel che la stragrande maggioranza degli studenti lamenta è che non capisce appunto il significato di ciò che studia…
Perché la conoscenza vera è capacità di mettere ogni particolare in relazione con la totalità dell’esperienza. Quindi non c’è conoscenza reale senza un’ipotesi globale di significato della realtà. L’assenza di significato che gli studenti lamentano è la conseguenza dell’impossibile neutralismo che da decenni la scuola di Stato persegue, distruggendo ogni possibilità di cultura vera. Invece il sistema scolastico deve permettere che i ragazzi si paragonino con una chiara ipotesi esplicativa della realtà. E questo può avvenire sia favorendo la scelta di scuole libere con una precisa impostazione culturale, sia consentendo la possibilità di scegliere fra diverse opzioni nella scuola statale.
Una specie di rivoluzione copernicana…
Una rivoluzione copernicana che valorizza la funzione dell’insegnante. Perché un’ipotesi culturale diventi concreta e appassionante occorre che sia vissuta in modo personale dall’insegnante. Non è la scuola in astratto a educare, ma una presenza umana che, attraverso contenuti e programmi, renda evidente il fascino di una apertura alla realtà. Un lavoro come quello che si compie con il Coordinamento culturale, ad esempio, mira a formare gli insegnanti con questa ampiezza di orizzonte culturale e umano.
Ci dica qualcosa di questo lavoro…
Al cuore della nostra elaborazione culturale sta la riflessione su esperienze concrete scolastiche fatta da docenti e ricercatori universitari insieme a insegnanti di ogni livello di scuola, dalle materne ai licei. Da una parte si chiariscono e approfondiscono, nel confronto concreto con l’esperienza, i princìpi e i criteri dell’educazione, vale a dire del “rischio educativo” in atto; dall’altra si cerca di costruire, attraverso successive approssimazioni, una realtà scolastica che sia innovativa dal punto di vista degli ordinamenti, dei contenuti e dei programmi, e anche degli strumenti didattici e comunicativi. Lavorare in questo modo con quasi duecento scuole e più di un migliaio di insegnanti è entusiasmante; sembra di essere in una sorta di “laboratorio dal vero” dove le idee prendono poco alla volta forma e i progetti si realizzano senza trascurare i particolari e accogliendo i suggerimenti di tutti. Per come di solito è vissuta la scuola, si tratta, credo, di una novità di non poco conto. E che può anche dare qualche indicazione importante per la Riforma della scuola e per la sua attuazione.

di Persico Roberto

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No alla scuola dei bastoncini

Il professor Lucio Russo da anni si batte contro la scuola delle istruzioni per l’uso

Il professor Lucio Russo, docente di fisica teorica all’Università di Roma 2, autore del best-seller Segmenti e bastoncini (Feltrinelli), direttore del quadrimestrale Punti critici, da anni si batte contro la riduzione del sistema di istruzione a quella che definisce una scuola delle istruzioni per l’uso: una scuola che fornisce agli studenti alcuni strumenti per inserirsi nel sistema di produzione e di consumo, ma non trasmette più gli strumenti razionali per una comprensione critica della realtà.
Professor Russo, lei ha polemizzato anche duramente contro la riforma Berlinguer, accusandola di accentuare la tendenza in atto in tutti i sistemi di istruzione occidentali verso una “scuola dei consumatori”. Da questo punto di vista, vede elementi di novità nella riforma Moratti?
Ogni giudizio deve tener conto del fatto che ci troviamo davanti a un abbozzo, che in gran parte deve ancora essere completato. Detto questo, nel disegno di legge si trovano alcune buone intenzioni, ma temo che complessivamente non ci sia un cambiamento di direzione significativo. Faccio alcuni esempi.
Sono molto d’accordo con la soppressione delle Ssis, che sono il trionfo della prevalenza del didatticismo sulla preparazione disciplinare. E sono contento che per insegnare sia prevista la laurea quinquennale. Ma se il biennio di specializzazione sarà specifico per la preparazione all’insegnamento, il didatticismo che era uscito dalla porta rischia di rientrare dalla finestra. Io sono convinto che il biennio di specializzazione non debba essere specificamente differenziato per chi mira all’insegnamento. Rimane, inoltre, il problema di una carriera poco appetibile dal punto di vista economico e del riconoscimento sociale, che difficilmente attirerà le menti migliori. Un punto che mi preoccupa molto è la regionalizzazione dei contenuti. In mano a certi assessori, specie della Lega, può degenerare in un localismo grottesco.
Altro problema delicato: la questione degli otto licei. Che fisionomia avranno? Cosa sarà il liceo tecnologico? Assorbirà gli attuali Itis? Molti Istituti tecnici in Italia vantano una grande tradizione di preparazione rigorosa. La trasformazione in licei non snaturerà la loro fisionomia? O sarà solo un aggiornamento terminologico? Lo stesso discorso vale per la trasformazione della ragioneria in liceo economico. La moltiplicazione dei licei, poi, mette in questione la natura stessa del liceo classico. Finora è stato una scuola di formazione generale, che veicola la tradizione culturale europea. Ora cosa diventerà? Se tutti i licei sono scuole di formazione generale, il classico sarà semplicemente quello con specializzazione in antichistica? Sarebbe la morte dell’idea europea di liceo. La questione si complica poi ulteriormente in connessione con la riforma dell’Università (io sono fermamente contrario al 3+2): oggi si iscrivono a lettere classiche diplomati dell’Istituto tecnico che non sanno il greco, e si laureano senza saperlo. Saranno questi a insegnare domani greco al classico? Solo letteratura in traduzione?
Certo, leggo anche spunti degni di attenzione, come là dove si parla di pluralismo di opzioni a proposito dell’informatica. È una possibilità interessante, se significa dire no al monopolio di Microsoft e all’idea di informatizzazione come addestramento all’uso dei suoi programmi, e apre invece la strada alla possibilità che i ragazzi imparino a realizzare autonomamente piattaforme informatiche, usando anche altri sistemi. Ma i condizionamenti in direzione opposta saranno pesanti. In conclusione, ripeto, vedo nel disegno di riforma alcune buone intenzioni, ma temo che ci siano pesanti condizionamenti che renderanno ben difficile realizzarle.

di Persico Roberto

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Dice Flannery

Una volta sono stata in un liceo

«Una volta sono stata in un liceo dove tutte le materie venivano chiamate “attività” ed erano così perfettamente integrate che non ce n’era più una ben definita da insegnare. Ho scoperto che, se si è astuti ed energici, si può integrare la letteratura inglese con la geografia, la biologia, l’economia domestica, la pallacanestro o la prevenzione degli incendi: qualsiasi cosa possa rinviare ancora un poco il giorno infausto in cui il racconto o romanzo dovrà essere semplicemente esaminato in quanto racconto o romanzo».
Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo.

di Persico Roberto


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Date: 12 Apr, 2003 on 20:01
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