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Ricerca europea, l’Italia in coda
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1. Ricerca europea, l’Italia in coda
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da Il Corriere della Sera
31 marzo 2003

Ricerca europea, l’Italia in coda
Monito da Bruxelles: Roma si impegni di più. Anche la Francia nel mirino della Ue

MILANO - Un’Europa della ricerca forte al Nord, scarsa al Centro e debole al Sud, con un distacco fra i due estremi sempre più rilevante. Così ha radiografato la situazione Philippe Busquin, commissario per la ricerca dell’Unione presentando il terzo rapporto europeo sugli indicatori per la scienza e la tecnologia. «E l’Italia deve impegnarsi di più nel raggiungere gli obiettivi stabiliti perché oggi rappresenta uno degli anelli più deboli del Continente», ha aggiunto. Un numero materializza la forbice Nord-Sud: in Filandia sono attivi 9,61 ricercatori ogni mille lavoratori, in Italia solo 2,78. Anche la Francia è nel mirino di Bruxelles dopo la decisione del governo Raffarin di ridurre dell’1,3 per cento i fondi pubblici della ricerca.

INSEGNAMENTO - Ma sotto inchiesta in Europa comincia a esserci pure l’insegnamento della scienza nelle scuole, giudicato inadeguato. Christian Bréchot, direttore dell’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica (Iserm) di Parigi, avverte che se «non si reagirà rapidamente la Francia diventerà una nazione scientifica di secondo rango». E il ministro della Ricerca, l’ex astronauta Claudie Haigneré, non esita a parlare di un «declino incontestabile». Dopo il taglio, i francesi investono l’1,9 per cento del prodotto nazionale lordo; una percentuale di fatto doppia della nostra (1,07). Al là delle cifre dei vari Paesi, il vero problema dell’Unione è legato al «metodo e alle scelte», fa notare il commissario Busquin, e deve essere risolto se l’Europa vuole stare al passo degli Stati Uniti e del Giappone (che continua a investire in ricerca nonostante la crisi: nel 2003 è arrivato al 3,18 per cento del prodotto interno lordo) o addirittura diventare un Continente-guida come il governo dell’Unione ha ipotizzato un paio d’anni fa a Barcellona.
Ma perché «i sogni di oggi diventino la realtà del domani» bisogna imboccare una strada diversa. Ora il modello della ricerca anglosassone, effettuata soprattutto nelle università finanziate su contratto dalle agenzie nazionali con la maggioranza dei ricercatori a contratto, sembra dare i migliori risultati. La maggior parte dei Paesi europei, invece, come la Francia, con i grandi apparati di ricerca (il Cnrs francese ha 25 mila addetti e assorbe un quarto del bilancio nazionale della ricerca) risulta poco flessibile. L’inevitabile conseguenza è che gli Stati Uniti sono sempre più un polo d’attrazione soprattutto per i giovani alimentando quella fuga dei cervelli che non è più soltanto un caso italiano. A tal punto che per la prima volta l’Unione ha stanziato dei fondi per arginare il «brain drain»: ogni anno se ne vanno complessivamente 85 mila cervelli, il 70 per cento dei quali non torna più indietro. Secondo l’ambasciata francese a Washington, nel Duemila erano circa duemila i ricercatori connazionali presenti negli States (gli italiani sarebbero circa 1500).

INVESTIMENTI - «Nella scienza bisogna essere pronti a prendere dei rischi ed evitare di pretendere un ritorno rapido sugli investimenti», dice Pierre Papon, ex direttore del Cnrs. E ricorda come dalle risorse dedicate negli Usa, a partire dagli anni ’50, alla fisica dei solidi siano derivati più tardi i transistor, i laser e anche le nanotecnologie di oggi. «La mancanza di coraggio - sottolinea Papon - è il limite dell’Europa». Alla base di ogni nuova strategia vi è tuttavia il bisogno, riconosciuto da tutti, di riformare l’insegnamento scientifico nella scuola. Per due scopi: avvicinare di più al mondo della scienza trasformandolo in una futura possibilità di lavoro. Dovunque bisogna invece fronteggiare il calo continuo delle iscrizioni alle facolta scientifiche. Nel 1996 nelle università d’Oltralpe gli iscritti erano 133 mila, mentre nel 2002 sono scesi a 98 mila.

IL PIANO - Per degli esperti britannici, la riforma dell’insegnamento scientifico deve però iniziare dai livelli scolastici più bassi. Per questo a Londra è allo studio un piano battezzato «pop science» o «science for citizens», il cui obiettivo è riorganizzare l’insegnamento delle materie scientifiche secondo criteri più accattivanti. Il Commons Science and Technology Select Committee dopo una lunga indagine nelle scuole ha concluso che oggi «l’insegnamento scientifico è fuori dal tempo, noioso e non porta a immaginare alcuna prospettiva nel settore». Perciò si sta mettendo a punto un «core curriculum» che focalizzi l’insegnamento della scienza e della tecnologia su temi attuali come la clonazione o i cibi modificati geneticamente. Nel prossimo settembre in 50 scuole del Regno inizierà un progetto pilota prima di attuare del tutto la riforma a partire dal 2005. Nel frattempo, il commissario Busquin sostiene che lo sforzo della ricerca deve assumere sempre più un’integrazione europea. Ma le logiche nazionali per il momento continuano ad avere il sopravvento.

Giovanni Caprara


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Date: 31 Mar, 2003 on 08:55
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