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In questa crisi ci manca un americano tranquillo
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da Repubblica.it

In questa crisi ci manca un americano tranquillo
di EUGENIO SCALFARI

MI HA molto colpito leggere qualche giorno fa, in una delle sue straordinarie corrispondenze da Bagdad, la citazione che Bernardo Valli ha fatto dal romanzo "Un americano tranquillo" di Graham Greene. Valli si richiama al Vietnam e alla disastrosa condotta non solo militare ma politica di quella guerra da parte americana, che finì con la sconfitta e la fuga da Saigon dell'ambasciatore Usa e coincise con il momento culmine della protesta pacifista contro il bellicismo interventista degli Stati Uniti, non solo in Europa ma soprattutto nella stessa America.
Siamo già alla vietnamizzazione della guerra irachena? Alcuni fatti lo farebbero pensare. Per esempio l'allungarsi dei tempi, l'evidente errore della strategia iniziale, la necessità di imponenti rinforzi, l'aumento delle vittime civili, la crescente agitazione delle folle arabe in Giordania e in Egitto.

E' di ieri la decisione, resa nota da alcuni comandi militari americani, di arrestare l'avanzata su Bagdad per alcuni giorni in attesa di forze fresche ed anche di viveri e carburante che cominciano a scarseggiare tra le truppe "insabbiate" nell'Iraq centrale: notizie del genere fanno dubitare della serietà con la quale la guerra è stata affrontata dai dirigenti politici e militari americani. Ancor più sinistra è la notizia del primo attentato kamikaze contro un reparto di marines sulla linea del fronte, che ha provocato la morte di quattro soldati.

Ma altri fatti ed altre considerazioni portano invece ad escludere il ripetersi di un secondo Vietnam per una ragione evidente: dopo lཇ settembre l'opinione pubblica americana voleva e anzi pretendeva una risposta vendicatrice. Le teorie imperiali della destra che si raccoglie intorno a Bush non avrebbero avuto spazio per attuarsi senza l'esistenza di questa condizione preliminare e cioè senza la volontà di risposta della grande maggioranza del popolo americano, chiaramente insoddisfatto dalla guerra afgana, dai suoi esiti precari, dalla mancata cattura di Bin Laden, dalla persistenza della minaccia terroristica internazionale.

In teoria non si può escludere che, in caso di un prolungamento della guerra irachena ed un aumento sostanziale delle perdite militari, l'opinione pubblica negli Stati Uniti evolva su posizioni contrarie a quelle del governo, ma in pratica sembra assai difficile che ciò possa accadere. Quanto alle vittime civili, che possano aumentare con assai maggiore rapidità, lཇ settembre ha in certa misura mitridatizzato il sentimento pubblico americano su questo aspetto del problema. Esso colpisce invece in misura estremamente intensa l'opinione pubblica europea e l'insieme del mondo cattolico. E qui si apre un altro discorso che potrà avere e già ha effetti molto seri sull'assetto dei rapporti cosiddetti interatlantici e delle istituzioni che dovrebbero costituirne il presidio e la garanzia.

***

Non mi pare che la posizione del Papa e della Chiesa cattolica siano state ben comprese: il movimento pacifista le ha in qualche modo identificate con se stesso; i fautori della guerra preventiva l'hanno ascritta all'intenso amore per la pace connaturato alla religione cristiana, meritevole di rispetto ma ininfluente sulle vicende politiche concrete. Quanto a Bush e al grosso dell'opinione pubblica anglo-americana, il Dio degli eserciti che per definizione marcia alla testa degli Stati Uniti portatori di libertà, soppianta la concezione del Cristo fattosi uomo e vittima di altri uomini per portare nel mondo l'amore, la pietà e la salvezza.

Si tratta dunque di semplificazioni che non colgono a mio avviso la sostanza del problema. Ho avuto modo negli scorsi giorni di verificare alcune mie personali sensazioni con alti dignitari vaticani molto vicini al Papa e in qualche modo diretti strumenti del suo messaggio di pace e ne ho tratto le seguenti conclusioni.

1. L'ecumenismo cattolico, fin dai tempi del Concilio Vaticano II ma sempre di più fin dall'inizio dell'attuale pontificato, ha avuto l'Islam come uno dei suoi principali interlocutori, quanto se non di più delle stesse Chiese cristiane, protestanti o ortodosse che fossero.

2. Lo sforzo costante della politica ecumenica di questo Papa è stato quello di puntare sull'Islam aperto, sulla sua visione pacifica e tollerante delle altre culture e delle altre religioni, sul rilievo che la figura profetica del Cristo ha avuto nella mistica islamica medievale e che tuttora ha nelle scuole più autorevoli dell'islamismo a cominciare dalla grande università Al Azhar del Cairo, ai dottori che si raccolgono attorno alle moschee di Damasco e a molte altre manifestazioni della Sapienza islamica sia nelle regioni arabiche sia in quelle musulmane non toccate dal movimento wahabita.

3. Il Papa ha sempre posto una cura particolare nel distinguere accuratamente il Cristianesimo dall'Occidente. Questa cura è decisamente aumentata dopo la caduta del muro di Berlino dellྕ. E' fuori dubbio che molti dei valori dei quali il cristianesimo è portatore fanno parte del patrimonio genetico dell'Occidente ma non sono i soli. Soprattutto molti dei valori che hanno dato forma all'Occidente non fanno parte del patrimonio religioso e culturale del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo.

4. Nella visione di Giovanni Paolo II esistono dunque sul piano culturale tre grandi soggetti in qualche modo interdipendenti ma tuttavia nettamente distinti tra loro e sono il cristianesimo, l'Occidente, l'Islam.

5. La tentazione del fondamentalismo politico che si sta diffondendo nell'Islam contrasta l'ecumenismo religioso. Del pari lo contrasta quello che ormai può definirsi una sorta di fondamentalismo politico cristiano. L'affermarsi di quest'ultimo, speculare al primo, rischierebbe di appiattire e addirittura di far coincidere la Chiesa con l'Occidente e ridurrebbe i soggetti culturali da tre a due delineando così uno scontro di civiltà che è l'antitesi del messaggio universalistico del Cristo.

6. Ecco perché la guerra irachena è considerata dal Papa come una guerra criminale della quale chi l'ha scatenata al di fuori della legalità internazionale dovrà rispondere (sono parole letteralmente pronunciate dal Papa e dai suoi più prossimi interpreti) "dinanzi a Dio, al mondo e alla storia" .

* * *

Il pacifismo cattolico si fonda dunque su questa base religiosa e culturale fortemente argomentata. Quello laico su motivazioni diverse anche se convergenti nel temere e nell'opporsi ad una guerra di civiltà. Ne ha dato una compiuta dimostrazione il ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin nel suo recente discorso all'Istituto di studi strategici di Londra, pubblicato venerdì scorso su questo giornale. Le sue motivazioni sono tanto più importanti in quanto provengono da un diplomatico e non già da un uomo dei movimenti, per di più membro d'un governo di destra conservatrice.

In breve, le motivazioni riguardano il rapporto tra la forza, il diritto e la legalità. "Solo il consenso e il rispetto del diritto - dice de Villepin - danno alla forza la necessaria legittimità. Se usciamo da questi limiti, l'uso della forza non rischia forse di diventare un fattore di destabilizzazione? Noi non rifiutiamo l'uso della forza ma vogliamo mettere in guardia contro i rischi del suo uso preventivo eretto a dottrina; quale esempio daremmo agli altri Stati del pianeta? Quale legittimità conferiremmo alla nostra azione? E quali limiti poniamo all'esercizio della potenza? Non apriamo questo vaso di Pandora". E conclude con una citazione di Pascal che non potrebbe essere più appropriata al caso della guerra irachena e ai suoi fautori: "Non potendo rendere forte ciò che è giusto, si è fatto in modo di rendere giusto ciò che è forte".

Non si può descriver meglio ciò che ispira il movimento pacifista nel suo variegato complesso: il primato del diritto è un'esigenza morale e politica, è la condizione della giustizia ma anche dell'efficacia poiché solo la giustizia garantisce una sicurezza durevole.

* * *

In attesa che il conflitto finisca si cercano fin d'ora le vie per recuperare in qualche modo la credibilità delle istituzioni devastate dall'improvvida guerra - che come ha detto l'altro ieri Romano Prodi non avrebbe dovuto esser cominciata. Tornare all'Onu - si dice - per la ricostruzione dell'Iraq e per l'aiuto umanitario a quella regione. Tornare all'Europa per recuperarne l'unità. Ebbene, è al tempo stesso troppo e troppo poco. E' troppo se si vuole scaricare sull'Onu, cioè su tutti i Paesi che ne sono membri, l'onere delle devastazioni provocate dall'armata di due paesi che hanno agito da soli scavalcando le Nazioni Unite. Loro hanno distrutto e sta a loro sopportare i costi di quella ricostruzione.

Sarebbe giusto effettuarla in un quadro multilaterale anche per evitare che la riparazione dei danni divenga un gigantesco e lucroso appalto di una cricca affaristica legata intimamente all'Amministrazione Bush, ma a condizione che i costi gravino sui responsabili di tali devastazioni. E' troppo poco se si scavalcherà ancora l'Onu nella sistemazione geopolitica della regione, a cominciare dallo stesso Iraq e dal conflitto Israele-Palestina.

E' molto improbabile che Bush ceda sia su un punto che sull'altro ed è pertanto improbabile che i rapporti transatlantici possano riprendere come se nulla o poco fosse accaduto. Quanto al tema dell'unità europea ho già scritto la scorsa settimana, e qui lo ripeto, che esso fa tutt'uno con la preminenza della costruzione europea rispetto al problema della ricucitura con gli Usa. Le due questioni non vanno insieme perché politicamente la prima non può che precedere la seconda. Se l'Europa non pensa prioritariamente a se stessa come entità e soggetto politico sarà difficile che recuperi un buon rapporto con gli Usa e con la loro deriva imperiale.

Da questo punto di vista è essenziale il compito della sinistra europea, della sua crescita politica, della sua capacità di riprendere il governo specie nei Paesi che hanno subito il fascino della forza senza legalità. E' essenziale anche che il Partito laburista inglese chiarisca la sua politica: l'ipotesi di Blair di condizionare l'"imperium" americano sol perché ha mandato quarantamila uomini a combattere nel Golfo si rivelerà probabilmente un'illusione; in realtà essa nasconde un'altra ipotesi, quella cioè che l'Europa dissenziente si converta di fronte alla forza della vittoria militare.

Tutto può accadere, ma se non accadesse sarà Blair e soprattutto il suo partito a dover scegliere tra la costruzione dell'Europa politica e la relazione speciale con gli Usa. Nelle condizioni attuali non si può essere cerniera tra un'iperpotenza e una potenza ancora ipotetica. Le cerniere funzionano per collegare due entità esistenti, altrimenti se ne fa volentieri a meno.

Il movimento pacifista può far molto affinché l'Europa politica cessi di essere un'ipotesi. Spero che ne acquisti piena consapevolezza così come spero che avvenga il reciproco da parte delle forze politiche di sinistra. La lite che in Italia ancora angustia queste due realtà complementari è fuori tempo e fuori luogo, fa solo danni senza alcun vantaggio.

Post Scriptum: in tutti questi frangenti di imponenti dimensioni un certo Catilina non meglio identificato si è prodotto sul sito della Fondazione Di Vittorio in insulti verso gli attuali dirigenti dell'Ulivo e dei Ds. Non critiche motivate, ma insulti. Chiunque sia la persona che sta dietro l'infelice pseudonimo, mi sento di prendere a prestito dalla brava Franca Valeri una sua antica e fulminante definizione: si tratta di un "cretinetti" e come tale va considerato.

(30 marzo 2003)


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Date: 30 Mar, 2003 on 10:22
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