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INCESTO ALL’UNIVERSITA’
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1. INCESTO ALL’UNIVERSITA’
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da Il Corriere della Sera
Domenica, 22 Dicembre 2002

Scarsa ricerca, corporativismo, poca qualità
INCESTO ALL’UNIVERSITA’

di MARCELLO PERA *

Caro direttore, il dibattito sull'università che si sta sviluppando sul Corriere è molto importante. Per questo, anche dopo l'approvazione della legge finanziaria, ritengo utile riprendere più sistematicamente alcune considerazioni che ho svolto in varie sedi durante l'inaugurazione del nuovo anno accademico.
Abbiamo, nella nostra università, due esigenze. Una è di carattere finanziario e riguarda le risorse. L'altra riguarda l'intero sistema ed è di carattere ordinamentale. Investimenti e finanziamenti, benché in parte recuperati, non sono ancora sufficienti. A causa di ciò, rischiamo d'imboccare un percorso di decadenza. I dati, infatti, sono sconfortanti: la percentuale dei nostri ricercatori sulla popolazione attiva è di 0,33: circa la metà di quella della Francia (0,61), della Germania (0,61), dell'Inghilterra (0,55). La percentuale del prodotto interno lordo (pil) investito in formazione universitaria ammonta allo 0,63: impallidisce se confrontato con quelle di Francia (1,13), Germania (1,04), Gran Bretagna (1,11).
E questa tendenza viene confermata dalla spesa annua per la ricerca nell'università: in Italia è di 2900 milioni di euro, mentre sono 4900 i milioni investiti da Francia e Gran Bretagna e ben 8 mila quelli che vi consacra la Germania.
Uno dei padri fondatori della scienza moderna, Francis Bacon - un filosofo che poi divenne ministro della Giustizia! - disse che scientia est potentia . Oggi è ancor più vero. Nel mondo postmoderno, un Paese non è ricco se ha tanta manodopera, tante risorse naturali, tanti stabilimenti: un Paese è ricco, o più ricco di altri, se inventa di più, se crea di più, se applica di più i risultati delle nuove ricerche, se dà ai suoi giovani una formazione duttile, agile, critica, in grado di metterli in condizione di cogliere sempre nuove opportunità di lavoro in un mondo che crea sempre nuovi bisogni e professioni.
Maggiori investimenti sono dunque essenziali. E però, una volta rivendicati e in parte ottenuti, occorre essere responsabili sul loro impiego.
La caratteristica principale della nostra spesa universitaria è una sorta di equipartizione delle risorse, naturalmente in modo proporzionale a numero e dimensioni degli atenei. Detto più chiaramente, si spende quasi tutto in stipendi. Questo criterio egualitario però presuppone un’equivalenza delle offerte formative e delle capacità di ricerca. Se tutti gli atenei offrono la stessa formazione con la stessa qualità, ha naturalmente senso la stessa distribuzione delle risorse. Ma è realmente così? Non lo credo e, francamente, non lo vedo.
Da tempo si è pensato che la strada dell’ autonomia degli atenei fosse il mezzo adatto e misure si sono prese in questo senso fin dalla scorsa legislatura. Analogamente è stata cambiata la valutazione dei risultati dell'autonomia, da cui dovrebbe dipendere almeno parte del finanziamento pubblico.
Sono personalmente favorevole a queste misure. E però, se vogliamo essere onesti, dobbiamo riconoscere che i risultati sono ancora scarsi. Perché?
Il fatto è che l'autonomia dev’essere finalizzata alla competizione , ma la competizione non può esserci se l'autonomia si trasforma in una licenza per le iniziative più disparate che sono finanziate comunque , se non altro tramite il pagamento degli stipendi.
Quanti corsi, con i titoli più roboanti e fantasiosi e le prospettive più illusorie, si sono aperti solo perché i docenti hanno ritenuto loro convenienza aprirli? Com’è valutata l’opportunità, utilità, redditività culturale, scientifica, economica di queste offerte? Quale politica delle assunzioni dei docenti si è fatta?
L'università è un settore ancora rigido per una serie di fattori che rischiano di trasformarla in un sistema burocratico. Mi sia consentito di ricordarne alcuni.
Abbiamo un localismo dei concorsi: ormai si va dalla tesi alla toga alla bara, tutto nella stessa sede, tutto dietro l'angolo di casa. Con questo sistema, non si producono innesti scientifici, si fanno incesti accademici.
Abbiamo un corporativismo delle discipline: alcuni, pochi docenti la fanno ancora da padrone solo perché più votati in cosiddette «elezioni» dei commissari. Non è chiaro come questa «democrazia» si sposi con quella meritocrazia senza la quale l'università muore.
Abbiamo un tasso elevato di promozioni da docenti di seconda a docenti di prima fascia o da ricercatori a docenti di seconda fascia: si fa prima, si fa in casa e costa poco. E già questo vocabolario delle fasce, ignoto a tutto il mondo occidentale, dovrebbe dirla lunga sul sistema di reclutamento e sullo status dei nostri docenti: andiamo verso il «docente unico» che fa carriera per fasce praticamente di anzianità.
Abbiamo uno scarsissimo reclutamento di giovani a causa di ragioni di bilancio che sono punitive e perverse: un ricercatore grava finanziariamente quanto due promozioni a professore ordinario.
Abbiamo il cosiddetto «3 più 2», il quale, misteriosamente, o fa il 4 di prima, con un allungamento di fatto del triennio previsto, o non fa ancora 5, perché i due cicli finiscono con il dover essere spesi nella stessa sede.
Abbiamo rette basse, con un circolo vizioso: le rette sono basse perché non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli, e non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli perché le rette sono basse.
Un sistema siffatto non è un sistema di autentica autonomia. L'autonomia vera comporta scelta , la scelta comporta responsabilità e la responsabilità comporta premi ma anche sanzioni . Se invece il sistema non è sanzionato, si produce un' autonomia senza competizione , cioè un'autonomia fittizia. Si cita spesso l'esempio americano. Si dimentica che in quel Paese la competizione esercitata dagli atenei privati, costosi ma efficienti, ha contribuito non poco a rendere competitivi gli atenei pubblici. E si dimentica che tra i migliori atenei - il caso della California lo dimostra - ci sono proprio gli atenei pubblici.
So, per esperienza, prima accademica e poi politica, che il discorso dell'autonomia vera, l'autonomia con competizione e responsabilità, è assai difficile. Ma se docenti e politici non hanno il coraggio di affrontarlo, allora la partita è perduta. Per fortuna, il dibattito in corso aiuta, questa volta, ad essere ottimisti.

Marcello Pera
* presidente del Senato


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Date: 22 Dec, 2002 on 09:49
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