LA FUGA DEI LAUREATI
CERVELLI GLOBALI

IL richiamo del Presidente della Repubblica a investire di più nella ricerca scientifica offre, insieme all'inaugurazione dell'anno accademico, una nuova occasione per ritornare sul dibattito della cosiddetta fuga dei cervelli. L'affermazione che la ricerca deve essere la più importante «impresa» nazionale contiene un felice doppio senso: oltre al significato economico implicito, l'espressione sottende infatti un'idea di impresa come «sforzo», «impegno», «missione». Proprio ciò che l'Italia deve oggi proporsi. Ci si può chiedere se la metafora mediatica della «fuga dei cervelli», con il suo corollario riguardante la necessità di trattenere in Italia le intelligenze nostrane, sia adeguata a descrivere gli interessi italiani e quelli della ricerca. Per rispondere, credo si debba partire ancora una volta dalla globalizzazione come fenomeno generale e dai suoi effetti nel campo della circolazione e dell'integrazione dei saperi. In questa prospettiva, l'obiettivo più promettente sta nell'indirizzare il sistema della ricerca italiano verso un ruolo attivo e adeguatamente sostenuto nel processo di mobilità internazionale delle intelligenze. Intelligenze in entrata e intelligenze in uscita, puntando a un saldo positivo per numeri e qualità. Questo processo è internazionalmente in pieno sviluppo, poiché risponde alle logiche intrinseche delle comunità della ricerca. Ma è insieme un processo che ci piace pensare come una moderna e operante res publica scientiarum: un fattore di crescita culturale e civile dell'umanità globalizzata. Come provare a riuscire nell'«impresa» di saltare su uno degli ultimi vagoni di un treno già in corsa? Una migliore presenza italiana nel sistema della mobilità internazionale delle intelligenze richiede di porre almeno tre obiettivi per la politica della ricerca. Primo: più che sforzarsi di trattenere in Italia i nostri ricercatori più validi, si tratta di realizzare le condizioni per offrire loro la prospettiva di una posizione adeguata al rientro da esperienze all'estero sicuramente formative. Secondo: favorire la permeabilità, ora molto bassa, del nostro sistema ai ricercatori stranieri, anche con opportuni e selettivi interventi sul reclutamento, guardando ai paesi dell'Unione Europea, a quelli dell'allargamento e, più in generale, a quelle realtà - specie in Asia e nella galassia post-sovietica - oggi in transizione economica, ma con buone o ottime tradizioni scientifiche. Terzo: non impegnarsi su tutti i fronti, ma scegliere - come esito di un dibattito culturale alto e di una seria concertazione tra i soggetti interessati - quei settori, anche numerosi, ove l'Italia possa effettivamente raggiungere livelli d'eccellenza, con investimenti che, in quanto selettivi, siano effettivamente adeguati all'ambizione. Una politica integrata tra attori di governo, università, nuovi o consolidati centri di eccellenza, network di ricerca europei, imprese, fondazioni di diversa origine, può ancora riportare il nostro sistema su un cammino virtuoso.

Direttore Fondazione Giovanni Agnelli
Marco Demarie