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Eco, il nome della Storia
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1. Eco, il nome della Storia
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da La Stampa
Sabato, 23 Novembre 2002

INCONTRO A MANTOVA CON LO SCRITTORE CHE HA APERTO IL CONVEGNO IN MEMORIA DI MARIA BELLONCI

Eco, il nome della Storia

inviato a MANTOVA

«OGNI ricostruzione storica è sempre fatta da un balcone e scritta al tempo presente» dice Umberto Eco tessendo l'elogio dello scrittore presbite che, dal suo oggi guarda indietro, a lontane stagioni, e riesce a (far) comprendere meglio quella attuale. Anche se la storia che racconta naviga nella dimensione del romanzo dove la verità e la verosimiglianza, la sceneggiatura e la scenografia, la ricerca e la sua elaborazione fantastica s'intrecciano. O, meglio, si puntellano a vicenda.


Professore, c'è un sistema empirico per verificare se un romanzo è davvero storico o si tratta, invece, d'un succedaneo: un esempio, cioè, di quella paralatteratura «da spiaggia» che lei paragona ad una specie di chewingum culturale?

«La prova del nove, forse, avviene quando ci rendiamo conto che quel tale personaggio, descritto e mai esistito, avrebbe meritato d'esistere davvero. E' il momento in cui, appunto, il romanzo ci aiuta a capire meglio noi stessi».

Un esempio?

«Penso a Walter Scott e, certo, a Manzoni. Ma, per restare in epoche più recenti, mi viene in mente Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Facciamolo leggere, che so, ad un americano: lui, è ovvio, non sa nulla delle tensioni che nel nostro Ottocento esistevano tra siciliani e piemontesi, eppure le comprenderà perfettamente. Perché le potrà calare in una realtà storica che conosce assai bene, immaginando quali difficoltà avrebbero incontrato, nei loro rapporti, un gentiluomo del Sud e un inviato di Lincoln».

Si discute di come passare correttamente dalla storia al racconto storico. Ma spesso il percorso divulgativo non si ferma qui. Prevede un altro salto mortale: dalla scrittura alle immagini, dal racconto al film.

«Sì. E il rischio è grande perché, in questo passaggio, ci si scontra con uno scoglio praticamente inevitabile: o si dice di più o si dice di meno rispetto al romanzo. A ben guardare mi sembra che, a questa regola, ci sia un'unica eccezione».

Quale, professore?

«Ancora una volta faccio un riferimento al Gattopardo. La pellicola che ne ha tratto Visconti è, secondo me, addirittura più chiara ed esplicativa del libro. Generalmente, però, il linguaggio cinematografico è costretto a livellare i diversi piani storici che la scrittura invece offre: si perde lo spessore del racconto».

Prendiamo il romanzo storico italiano per eccellenza, I Promessi Sposi: crede che anche questo sia intraducibile cinematograficamente?

«Il tentativo sarebbe destinato a fallire per almeno due motivi: non si potrebbe riportare il dialogo diretto che Manzoni instaura con il lettore; si perderebbero le sfumature, le reticenze. Quando l'autore definisce il peccato della Monaca di Monza con le famose tre parole, "la sventurata rispose", il regista, se sarà così pudico da non inquadrare la suora a letto con l'amante, sarà almeno costretto a mostrarla con un sorriso malizioso, un balenare di sguardo. E tradirebbe il testo. D'altronde, siamo sinceri: vorrei vedere uno scrittore raccontare il Matrimonio della Vergine di Raffaello...».

Lei è critico nei confronti dei film tratti da romanzi storici, però ha consentito che un suo romanzo, «Il nome della rosa», fosse tradotto in immagini.

«In quel caso sapevo sin dall'inizio che sarebbe stata un'opera diversa, solo ispirata alla mia. Come del resto appare nei titoli di testa».

Ci sono stati problemi durante la lavorazione?

«Abbiamo discusso a lungo, per esempio, sulla scelta dei colori. Secondo me avrebbero dovuto essere squillanti, come le miniature medievali, invece sono state preferite tinte più cupe, quasi caravaggesche. Mi domandavo irritato, e con me se lo chiedeva anche uno studioso come Jacques Le Goff, cosa ci stessero a fare sfumature del genere nelle immagini d'una vicenda che si svolge in epoca assai precedente. Poi, all'atto pratico, ho compreso che non era proprio così: nell'androne d'un castello o all'interno d'una casa dove si viveva alla luce d'una torcia le ombre e le luci erano proprio quelle che io consideravo seicentesche».

Renato Rizzo


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Date: 23 Nov, 2002 on 14:29
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