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Scienza che tradisce
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1. Scienza che tradisce
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da La Stampa
Sabato, 23 Novembre 2002

DOPO L’ANNUNCIO DI SMITH E VENTER

Scienza che tradisce
di Leonardo Zega

PUÒ essere una semplice coincidenza, ma anche la spia di un’inquietudine diffusa: mentre si concludeva a Collevalenza l’assemblea dei vescovi italiani, impegnati in una approfondita discussione attorno alla visione cristiana dell’uomo in rapporto alle neuroscienze, giungeva dall’America la notizia che Hamilton Smith, premio Nobel per la medicina nel 1978, e Craig Venter, uno scienziato-manager che nel 1998 lanciò il progetto per la mappatura del genoma umano, «sono pronti a fabbricare la vita». Titolo choc su tutti i giornali, per dire di un microrganismo creato in laboratorio, che costituirebbe il primo «mattoncino della vita».

Lasciamo da parte i complicatissimi passaggi tecnici e le spiegazioni altrettanto complesse del progetto, che prevede la costruzione di un genoma neutro e multiuso, per approdare a un’entità biologica da sfruttare - come dichiarano i suoi inventori - solo per fini terapeutici e per la tutela dell’ambiente. Soffermiamoci invece su un punto toccato anche dai vescovi: si può considerare la creatura umana un semplice ammasso di cellule, sia pure mirabilmente organizzate?

Basta questo elemento materiale per definire l’uomo, terra difficultum, terreno irto di ostacoli, come dice Sant’Agostino, citato dal cardinale Tettamanzi, nel corso dell’assemblea? Anche se il traguardo che Smith e Venter si sono dati fosse raggiunto - ha spiegato il genetista Giuseppe Sermonti - non si parli per favore di «creazione della vita». E ha aggiunto: «Detesto quanti, di fronte a queste notizie, si esaltano subito proclamando che l’uomo ha superato tutti i suoi limiti, è diventato un secondo creatore e marcia verso una sorta di onnipotenza».

Dove finisce l’antropologia umana in questo rigurgito di materialismo puro? E quella cristiana, che definisce l’uomo in rapporto al suo Creatore, esemplare unico e irripetibile, capace di libertà e responsabilità, con un destino che travalica le frontiere della vita terrena e ha il respiro dell’enternità? Strano il destino di chi si abbandona al mito del progresso infinito e alla totale autonomia della scienza, per poi ritrovarsi del tutto sprovveduto di fronte a queste semplici domande: da dove viene all’uomo l’insopprimibile desiderio di felicità, la sua sete di infinito?

Da quale alchimia la vita, l’ansia di scroprire la bellezza e la verità delle cose? Tra il pessimismo cosmico di Guido Ceronetti (vedi il suo editoriale sulla Stampa di domenica scorsa) e l’ottimismo presuntuoso di chi crede di poter tutto, purché tecnicamente fattibile, c’è il sano realismo che la vita insegna a chi le dà un senso e la vive senza perdersi nella disperazione del nulla o nell’esaltazione del tutto. La buona scienza deve sempre fare i conti con la misteriosa ma concretissima realtà dell’uomo, se non vuol tradire la sua vocazione: che è quella di serva, non di padrona, della vita.

leonardo.zega@stpauls.it


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Date: 23 Nov, 2002 on 14:26
Scienza che tradisce
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