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La filosofia al tempo della globalizzazione
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1. La filosofia al tempo della globalizzazione
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da La Stampa
Sabato, 23 Novembre 2002

A VATTIMO IL PREMIO HANNAH ARENDT PER IL PENSIERO POLITICO. PUBBLICHIAMO UNA PARTE DELLA SUA «LECTIO»

La filosofia al tempo della globalizzazione
di Gianni Vattimo

L’IDEA di una globalizzazione politica che sappia fare da contrappeso a quella economica delle multinazionali ha qualche speranza di funzionare? Qui si presentano almeno due risposte che vale la pena di discutere. Per comodità le indicherò come la risposta populista e la risposta federalista. La prima, che riprende e esprime molti dei motivi di rivolta presenti nell'anarchismo populista e nell'indisciplina sociale diffusa, si muove ancora nell'orizzonte dell'eredità marxista e della sua idea di una rvoluzione del proletariato mondiale capace di instaurare un nuovo ordine giusto e umano.

E' stata da ultimo formulata, in termini aggiornati, da Toni Negri e Michael Hardt nel libro Impero, che arriva addirittura a identificare, almeno in una certa misura, il populsimo antiglobal dei nostri giorni con il cristianesimo delle origini; come i cristiani furono il fattore decisivo nel dare il colpo di grazia all'impero romano già in via di dissoluzione, così oggi le moltitudini dei diseredati dalla ristrutturazione globale dell'economia mondiale finirannmo per condurre alla rovina l'impero americano. La teoria di Negri e Hardt non si pone naturalmente il problema del dopo - giacché è proprio dopo la caduta dell'impero romano che si è costruito l'ordine mondiale poi sboccato nella situazione attuale.

Sembra che, del resto con qualche ragione, Negri e Hardt pensino la storia nei termini della Critica della ragione dialettica di Sartre: momenti di autenticità - le rivoluzioni e le nuove società che esse fondano - seguiti dalla fatale ricaduta nella serialità, burocraticità, dominio del «pratico inerte». Una visione che ha il suo fascino (largamente sentito dalla sinistra intellettuale americana),e che però o si decide per un esito religioso (la salvezza sta comunque in un al di là della storia) oppure per una sorta di estetismo esistenziale (un critico italiano di Negri ha fatto il nome di D'Annunzio).

Certo per le stesse ragioni - rifiuto di costruire una filosofia della storia universale - Negri e Hardt non affrontano nemmeno il problema dell'ordine politico che dovrebbe succedere alla rivoluzione delle moltitudini; quasi volessero allontanare il più possible il momento della ricaduta nel «pratico-inerte» e prolungare al massimo l'esperienza di autenticità del «gruppo in fusione». Eppure la costruzione di un ordine politico che non risusciti la rivolta delle moltitudini - così chiamano gli autori di Impero il proletariato mondiale non più caratterizzato dall'omogeneità di classe dei lavoratori di Marx - si troverebbe a dover risolvere tutte le questioni che hanno bloccato sul nascere le varie utopie della democrazia diretta, e che in fondo sono alla base di quella ricaduta nel pratico-inerte che Sartre riteneva inevitabile.

Senza una risposta a tali questioni, Negri e Hardt sembrano approdare a una ennesima teoria della «rivoluzione permanente» che non per nulla suscita l'interesse e il consenso della sinistra intellettuale, la quale - in America ma anche altrove - vi può trovare una sorta di legittimazione della propria «pratica teorica», delle sue tante «decostruzioni» puramente testuali attuate sulle riviste e nelle biblioteche. Una analoga mancanza di progetti politico-istituzionali si può trovare nelle opere di Hannah Arendt, più preoccupata di criticare il degrado moderno della politica che di delineare forme di stato che sfuggano a tale critica.

Tuttavia, la filosofia politica arendtiana contiene almeno qualche spunto che può aiutare a caratterizzare l'altra possibile risposta alla domanda sull'ordine politico che si dovrebbe costruire in alternativa alla globalizzazione delle multinazionali e alla guerra di Bush. Si tratta della sua preferenza, più o meno esplicita, per una polis non sovradimensionata, che possiamo tradurre in una preferenza federalista. Alla globalizzazione dominata dall'economia che si fa, immediatamente, ordine (abusivamente) politico, non si rimedia con la costruzione d’un parallelo ordine politico globale.

Del resto, qui Hannah Arendt incontra le legittime preoccupazioni di tanta sinistra critica del Novecento, a cominciare dagli esponenti della Scuola di Francoforte, Adorno soprattutto, che hanno teorizzato una sorta di vocazione inevitabilmente totalitaria della tecnologia moderna. E' vero che il pessimismo di Adorno - fondato soprattutto sulla considerazione del potere illimitato dei mass media - può essere stato smentito dall'uso interattivo che molti dei media da lui «demonizzati» hanno finito per avere anche in vista della liberazione di minoranze sociali prima senza voce; ma noi ci rendiamo conto che tale pessimismo è oggi motivato dalle dimensioni che uno stato «globalizzato» dovrebbe necessariamente prendere per fare da contrappeso politico alla globalità dell'economia (e del crimine organizzato).

E' possibile, in altre parole, una politica globalizzata che non perda fatalmente i tratti della politica autentica - distinta dall'economia e non ridotta a funzione della sopravvivenza? Naturalmente, qui ci si pone subito una domanda circa la validità della concezione arendtiana della politica; che appare troppo letteralmente modellata sulla sua idealizzazione della pòlis greca per poter essere trasposta senz'altro nella nostra situazione. Per poter utilizzare questi concetti della Arendt, noi dobbiamo probabilmente spogliarli di una certa retorica legata alla nozione di onore contrapposta ai valori della sopravvivenza, mantenendo però l'esigenza e il principio della distinzione tra sfera del sociale, o della società civile hegeliana, e sfera della politica.

Che è anche l'esigenza che si manifesta nella teoria dell'agire comunicativo di Habermas, là dove egli si preoccupa di evitare la «colonizzazione» della sfera della comunicazione sociale complessiva - la Lebenswelt - da parte dell'agire strategico che tocca alle scienze positive e alla tecniche, compresa tutta la sfera dell'economia. La tematica del riconoscimento come esigenza che trascende i problemi della sopravvivenza - e che diventa sempre più evidente nelle società avanzate che, bene o male, hanno fornito una qualche soluzione a questi ultimi, ma che tuttavia sono ancora luoghi di intenso disagio e di vera e propria alienazione - si puo' facilmente leggere alla luce anche della concezione arendtiana della politica.

La quale, dunque, al di là della condivisione della sua ammirazione per la polis greca (popolata di una maggioranza di schiavi, che Nietzsche, come si sa, considerava necessari; ma la Arendt?), suona affemazione di una separazione «etica» della politica dalla sfera degli interessi, separazione che non è un mero imperativo morale astratto, se è vero che la questione del riconoscimento, anche se non ha da fare con le possibilità immediate di sopravvivenza, resta decisiva per la qualità della nostra esistenza nel mondo.


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Date: 23 Nov, 2002 on 14:24
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