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Le cornacchie della torre di Babele di Andrea Camilleri
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1. Le cornacchie della torre di Babele di Andrea Camilleri
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da La Stampa
Martedì, 15 Ottobre 2002

MALEDIZIONE CHE CONTINUA
Le cornacchie della torre di Babele

di Andrea Camilleri

ALLORA tutta la terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse parole.

Or avvenne che, emigrando dall’oriente, trovarono una pianura nella regione del Sennaar e vi abitarono...

E dissero: Orsù, edifichiamoci una città e una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno di unione altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra.

Ma il Signore scese a vedere la città e la torre e disse: Ecco, essi sono un popolo e hanno tutti un medesimo linguaggio. Niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare.

Orsù dunque proprio lì confondiamo il loro linguaggio, in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri.

Così il Signore di là li disperse sulla faccia di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città, alla quale perciò fu dato il nome di Babele, perché ivi il Signore aveva confuso il linguaggio di tutta la terra (Genesi, 11, 1-9).

Dunque, come ci spiegano i biblisti, Dio non distrugge la torre perché segno d’umano orgoglio smisurato, ma perché simbolo dell’unità raggiunta attraverso l’uso di uno stesso linguaggio.

Linguaggio che permetteva «agli esseri viventi in comunità ad avvicinarsi l’uno all’altro, a simpatizzare, a lavorare insieme, a capirsi reciprocamente», secondo la classica definizione di Révész.

Situazione che si presenta agli occhi del Creatore, in quel momento, oltre che come una colpa collettiva, anche come un rischio assoluto: «niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che verrà loro in mente di fare».

Dio insomma capisce che le parole di quel linguaggio comune non sono le parmenidee «etichette delle cose illusorie», ma realtà concrete che pigliano forma in quei mattoni cotti che servono alla costruzione della torre.

Le parole del comune linguaggio concretamente si tramutano in elementi basilari della costruzione. Ma perché Dio rompe a forza quell’unità?

Oggi si direbbe diplomaticamente per una banale divergenza d’opinioni. I discendenti dei figli di Noè si erano convinti che era meglio per loro starsene uniti in un unico luogo della terra, mentre Dio al contrario sosteneva che era meglio che essi si diffondessero per tutta la terra.

La sproporzione del peso contrattuale tra le due parti è enorme e non può esserci altra strada se non quella della sottomissione alla volontà divina.

Resta comunque irrisolta la domanda: che bisogno c’era di aggiungere alla diaspora anche la diversità delle lingue se non si vuole ammettere che il Verbo con la «v» maiuscola temeva la parola senza la «p» maiuscola?

Perché in verità anche nelle Upanishad gli Asura, i Demoni, paventano l’uso di un medesimo linguaggio da parte degli uomini, dicono che «la parola finirà col dominarci» e rilevano che in fondo, per le loro costruzioni, gli uomini non hanno avuto bisogno che di sole sette parole.

Che cosa accadrà quando le parole, i mattoni cotti, si moltiplicheranno restando da tutti comprese allo stesso modo?

IN effetti, la rappresentazione che della costruzione della Torre ci ha dato Bruegel, il quale almeno tre volte tornò su questo argomento che evidentemente l´affascinava, è la dichiarazione assoluta dell´orgoglio umano, quando esso prende coscienza delle sue capacità e possibilità di fare. Le proporzioni della Torre sono colossali in rapporto al paese che c´è alla sinistra e anche in rapporto al porto che è sulla destra. In primo piano, a sinistra, c´è la figurazione dell´indifferenza degli scalpellini che continuano a lavorare mentre l´architetto illustra a Nembroth i criteri seguiti per la costruzione. La domanda è: dove sono gli uomini, i lavoratori, quelli che materialmente eseguono la gigantesca costruzione? Sono così minuscoli, sono così formiche che quasi non hanno visibilità. Eppure, a guardar bene, ci sono, e sono tanti. Salgono scale, manovrano argani, rompono pietre, fanno girare ruote gigantesche, raschiano pareti, conducono carri, remano, si riposano, corrono, salgono sugli alberi di navi, scavano, pesano, piallano, segano, misurano. Tutte azioni comandate e coordinate dalle stesse, pochissime parole. La confusione delle lingue diventa perciò per Dio e per gli Asura provvedimento indispensabile alla sopravvivenza.
Borges ha ipotizzato la sterminata biblioteca di Babele, dunque si riferiva a una biblioteca sorta dopo la distruzione della torre, e sarebbe stato interessante sapere da lui quanti e quali volumi la biblioteca avesse contenuto prima della distruzione. Qualche altra ipotesi Borges però l´ha avanzata: poemi che si compongono di una sola parola o delle quattro della lingua di Japhet. Per comporre poemi di una sola parola, basterebbe combinare le lettere che compongono la sillaba sacra, AUM, dove A è lo stato di veglia, U lo stato di sonno e M il sonno profondo. Però qui entriamo in un campo vietato già dal 1866, quando la Société de Linguistique di Parigi statutariamente dichiarò che non avrebbe accettato nessuna comunicazione concernente l´origine del linguaggio. Ma a lungo è rimasto irrisolto il problema, con buona pace della Società di Linguistica, di come si siano formate le diverse lingue dopo la distruzione della torre, da quale comune ceppo si siano dipartiti i rami: su alcuni risultati oggi raggiunti non sembrano più esserci dubbi. E questo dovrebbe tranquillizzarci. Apparentemente, la distruzione della torre non ha apportato considerevoli danni. Oggi ci è possibile comprendere tutte le seimila e passa lingue esistenti sulla terra attraverso la traduzione, che può anche esser simultanea. Ma già nella Bibbia è frequente la comparsa di un personaggio del tutto nuovo, l´interprete. Quando i fratelli di Giuseppe lo raggiungono in Egitto egli si serve di un interprete per capire ciò che dicono. Assuero inviava lettere a tutte le province del regno, a ogni provincia secondo la sua scrittura e a ogni popolo secondo la sua lingua. I Galaditi identificano e ammazzano gli uomini di Efraim facendo loro dire «schibboleth» che gli efraimiti pronunziano «sibboleth». Però il dono dato da Dio agli Apostoli nella Pentecoste, di poter cioè parlare e comprendere tutte le lingue, quello rimane privilegio degli eletti.

Le parole morte

Apparentemente, dicevo. Perché come se non bastasse la separazione delle lingue dell´uomo, nuove scienze ci hanno rivelato il senso e il significato dei segni e hanno tramutato alcune metafore poetiche, ad esempio quelle sul linguaggio della natura, in concreti segni di linguaggio e così si è arrivati a scoprire, non so con quanta soddisfazione, che le cornacchie di città non capiscono le cornacchie di campagna e che quelle del Connecticut non riescono a farsi intendere da quelle della California. Anche le cornacchie vittime di una loro torre di Babele? O babelizzate per contagio umano? Ad ogni modo, le lingue nascono, crescono, invecchiano, muoiono. Aggiornate statistiche ci dicono quante ne siano scomparse nell´ultimo decennio. Claude Hagège, nel suo Morte e rinascita delle lingue, sostiene che ogni quindici giorni scompare una lingua. Alcune per eutanasia, nel senso che alcune tribù decidono di abbandonare il loro linguaggio per passare a un altro usato da tribù vicine e più numerose. A me qui interessa constatare il fenomeno, troppe essendo e assai contrastanti tra loro le spiegazioni che di questo fenomeno si vogliono fornire. Un dato comunque è certo: lingue che hanno fornito all´umanità opere immortali alle quali l´uomo si è abbeverato nel suo crescere sono morte alla stessa stregua di lingue che non hanno saputo elevarsi al di sopra della più elementare comunicazione. Ma qui mi preme porre una domanda che riguarda le ceneri, il destino delle lingue morte. Sappiamo che alcune di esse, prima di scomparire, hanno fatto a tempo a generare da sé una lingua figlia. Ma le altre, quelle che sono scomparse senza eredi, che fine hanno fatto? Voglio dire: quelle parole morte che hanno costituito una lingua con la quale sono stati espressi i moti dell´animo e la natura stessa dell´uomo che le diceva si sono volatilizzate nell´aria? Sono tornate a essere una modulazione del vento? Oppure sono diventate humus, terreno fertile per una lingua ancora da venire e che probabilmente nel suo Dna avrà solo indecifrabili tracce della lingua ava? Oppure ancora gran parte di queste parole che a noi appaiono morte si sono trasferite, mimetizzandosi, all´interno del tessuto della lingua prossima e vivente? E inoltre mi chiedo: non è nemmeno sopravvissuto un traduttore, un interprete di queste lingue scomparse? Qualcuno cioè in grado di raccontare agli altri ciò che quelle parole perdute avevano significato per chi le pronunziava? So benissimo che «il senso di una parola non è che la media degli usi che ne fanno gli individui e i gruppi di una stessa società», o per dirla più chiaramente con Wittgenstein «il significato di una parola non è null´altro che l´uso che se ne fa nella lingua», ma so anche che ci fu chi pronunziò qualche volta una parola in senso assoluto, fuori dalla media, da ogni possibile contabilità. Questo è quello che chiedo all´eventuale interprete superstite e gli chiedo anche di ricordarle a se stesso in quanto parziale parte di quel popolo che quella lingua parlò. Sì, perché qui ci soccorre il ricordo di Ennio il poeta il quale affermava che, conoscendo il greco e il latino e l´osco, tria corda habere, era in possesso di tre anime. Se così non è, come temo, la maledizione della Torre ha ancora pieno vigore e il linguaggio della tribù, quella summa di conoscenze e di sentimenti, è destinato a scomparire con la tribù stessa. E in ciò è forse individuabile il vero, profondo senso della maledizione divina. Che si estende, ora con sottile ora con tragica ironia, anche all´interno di una stessa lingua. La sottile ironia, per esempio, ha assunto clamorosa evidenza in quel Corso di linguistica generale di Fernand de Saussure che è alla base di ogni moderno studio linguistico, antropologico, semiotico o di scienza dell´informazione: ebbene ancora oggi ci si chiede se i volumi che costituiscono il Corso fedelmente rispecchino il pensiero di Saussure.

Il paradosso di Saussure

Com´è noto, il maestro ginevrino, che aveva una singolare e inesplicabile repugnanza a pubblicare, tenne questo corso universitario tra il 1906 e il 1911. I suoi allievi linguisti Bally e Sechehaye, servendosi dei loro appunti, di quelli di altri cinque uditori e di quelli di mano di Saussure, fecero stampare nel 1916 il Corso. Il maestro era morto tre anni prima e gli stessi curatori affermarono, nella prefazione, che il loro lavoro era consistito essenzialmente in una «ricostruzione» del suo pensiero. Una ricostruzione, una interpretazione dunque, non il pensiero originale. Dal 1957, quando Robert Godel rimette mano alle fonti del Corso, «anche la semplice lettura di Saussure diventa un problema», come scrive Georges Mounin. Problema che il nostro Tullio De Mauro ha tentato di risolvere consentendo una visione delle idee di Saussure non del tutto collimante con quanto era stato stampato nel 1916. Ma «resta il fatto» - scrive Giulio Lepschy - «che il testo su cui si fondano le correnti più interessanti della linguistica strutturale moderna è quello - del 1916 - così come fu stampato dagli editori». Non è paradossale? Oppure va rivisto quel concetto di identità che Saussure ha voluto dimostrarci col celebre esempio del treno Ginevra-Parigi delle 20,45? Mettiamo - dice Saussure - che ci siano due treni Ginevra-Parigi che partano alle 20,45 a ventiquattr´ore di distanza l´uno dall´altro. Ai nostri occhi si tratta dello stesso treno, anche se assai probabilmente la locomotiva e i vagoni sono stati cambiati e personale e passeggeri sono diversi. Allora perché diciamo che è lo stesso treno? Perché, spiega Saussure, «ciò che costituisce il treno è l´ora della sua partenza, il suo itinerario e in genere tutte le circostanze che lo distinguono da altri treni». Ma, a parte il fatto che tutto ciò è forse valido per le ferrovie svizzere mentre lo è assai meno per le ferrovie italiane, dove talvolta treni partono in ritardo, cambiano percorso e denominazione, perdono identità assieme ai passeggeri, a parte tutto questo, la possibilità dell´errore scientifico può darsi risieda nella necessità della generalizzazione. In altri termini, con un paradosso forse chiarificatore, si potrebbe obiettare a Saussure che i due treni Ginevra-Parigi partiti a ventiquattro ore di distanza non sono riconducibili alla stessa identità mai, perché nel primo viaggiava lo stesso Saussure e nel secondo i suoi allievi Bally e Sechehaye.

Il mostro con due teste

Ho anche accennato all´ironia tragica con la quale si manifesta l´effetto Torre. Le due torri di New York vengono fatte crollare con un immondo attacco terroristico, la nazione che si fa paladina della civiltà occidentale sparge il terrore in Afghanistan con bombardamenti indiscriminati, i cosiddetti terroristi palestinesi si fanno saltare in aria uccidendo donne e bambini israeliani, gli israeliani seminano il terrore coi loro carri armati uccidendo donne e bambini palestinesi, e poi ci sono i terroristi dell´Ira, dell´Eta, delle Brigate rosse e tanti di altre organizzazioni che mi sfuggono. Ebbene, da mesi e mesi, all´Onu, parlando tutti convenzionalmente la stessa lingua, l´inglese, non riescono a dare una definizione, valida per un qualsiasi dizionario, della parola «terrorismo». Quando ero piccolo, c´era nella campagna di mio nonno un anziano contadino che amava raccontarmi storie fantastiche. Un giorno mi disse di un mostro vissuto da quelle parti al tempo degli antichi che si chiamava «Gufia», forse una deformazione di Golia, non so. Era un mostro perché, pur essendo un essere umano come tutti gli altri, aveva due teste. Queste due teste parlavano due lingue diverse e non riuscivano tra loro a capirsi. Allora a Gufia, certi giorni che le due teste cominciavano tra di loro ad altercare senza riuscire a spiegare il perché, saltavano i nervi e si metteva ad ammazzare tutti quelli che incontrava per strada. Ci sono voluti anni e anni per scoprire che non si trattava di una leggenda, per rendermi conto che Gufia continua a esistere e che non è un mostro: è, molto semplicemente, l´uomo.

Andrea Camilleri


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Date: 15 Oct, 2002 on 07:28
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