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Scuole nel deserto per gli immigrati
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1. Scuole nel deserto per gli immigrati
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da Il Corriere della Sera
Venerdì, 27 Settembre 2002

IL REPORTAGE / Monsignor Sigurani: i 108 ragazzi del primo corso hanno tutti trovato un lavoro

Scuole nel deserto per gli immigrati

Due centri in Tunisia fondati da un parroco romano. «Imparano come arrivare in Italia legalmente»


DAL NOSTRO INVIATO
DOUZ (Tunisia) - «Avevo due figli. Si erano imbarcati su un battello clandestino per venire in Italia. La mia famiglia si era indebitata per pagare il loro viaggio allo scafista. La speranza era che, poi, con il lavoro nel vostro Paese, avremmo pagato i debiti. Invece ora siamo la famiglia più povera del paese: i miei figli sono morti annegati tentando di sbarcare in Sicilia. E adesso, nel sapere che qui rischia di chiudere la scuola italiana che preparava i giovani tunisini a entrare in Italia legalmente e a combattere l’immigrazione clandestina, mi sembra che la loro morte non sia servita a nulla».
Le parole di Nabila, 60 anni, mamma del deserto ora talmente povera da essere mantenuta dal Comune, denunciano un aspetto sconosciuto e sconcertante della tragedia dell’emigrazione dalla Tunisia, provocato, indirettamente, dalla legge Bossi-Fini. Proprio nel momento in cui più acuto appare il fenomeno degli arrivi illegali, proprio nel momento in cui a gran voce si proclama che il flusso dev’essere legale e legalizzato, stanno per morire qui a Kebili e Douz (due oasi a 650 km a sud di Tunisi sul margine del Sahara) due centri del Terzo Mondo creati dagli italiani per la «preparazione all’emigrazione». La conseguenza immediata è che 97 ragazzi nordafricani, dopo aver studiato per sei mesi lingua e cultura italiane, legislazione del lavoro e sanitaria, e pur avendo in Italia (in Liguria in particolare) i posti di lavoro e la casa assicurati non possono entrare nel nostro Paese. La legge sull’immigrazione è stata cambiata in itinere, la figura dello sponsor e le quote fisse sono sparite, e adesso questi giovani sono nel limbo dell’attesa, con il rischio di diventare preda dei traghettatori clandestini.
Sarà questa la triste conclusione di un progetto unico partito appena due anni fa? «Per la verità il progetto prese corpo nel 1999 dal pianto di quella mamma che incontrai per caso a Kebili - ricorda monsignor Pietro Sigurani, parroco della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo nel quartiere Appio Latino Metronio, a Roma - allora capii che dovevamo fermare i battelli della morte, dovevamo bucarli, questi gommoni, prima che partissero. Non potevamo stare tranquilli pensando che mentre dormivamo, molta gente per sfuggire alla miseria affondava nei nostri mari. Dovevamo creare una emigrazione legale e formata».
Una parte dei parrocchiani (dal 1980 nella parrocchia funziona la Domus caritatis che assiste più sfortunati, vestendo, lavando e nutrendo anche 1.000-1.200 persone per sera, soprattutto arabi) seguì il sacerdote che riuscì a convincere i governatori tunisini, e a farsi «sponsorizzare» dal comune di Roma (con Francesco Rutelli), dall’Ambasciata d’Italia a Tunisi e dalla Regione Lazio. Francesco Storace, dopo essere venuto qui a Douz, chiamò monsignor Sigurani e gli disse: «Sai che io c’ho er pelo sur core, ma stavolta sei riuscito co’ stì ragazzi a famme piangere».
Ora però a piangere sono 97 giovani tutti tra i 22 e i 26 anni. Quelli che hanno frequentato il secondo corso (ottobre 2001-aprile 2002) a Kebili e a Douz. Avrebbero dovuto seguire il percorso dei 108 del primo corso, tutti felicemente sistemati nel nostro Paese, grazie al comune di Roma che ha fatto da «sponsor». E invece sono bloccati. «Non solo - aggiunge per telefono dall’Italia monsignor Sigurani - non può prendere il via il terzo corso e neppure possiamo aprire il terzo centro a Touzier, chiestoci espressamente dal governatore locale. E pensare che il terzo corso avrebbe dovuto preparare cento infermiere per l’Italia. Noi non ci pronunciamo sulla nuova legge, non chiediamo soldi a nessuno, non costiamo niente neppure allo Stato tunisino, siamo tutti volontari. Non è giusto però che una strada regolare venga tagliata in questo modo. A noi interessa il bene di questi ragazzi e non lo facciamo neppure per convertirli al cristianesimo: i patti con la Tunisia in tal senso erano chiari».
«Il problema è serio - aggiunge da Tunisi l’ambasciatore Armando Sanguini - sarebbe una vera tragedia se l’iniziativa affondasse nelle sabbie del deserto, anche perché oltre a far crescere l’idea che l’emigrazione non deve essere un’avventura ma un percorso con regole precise, questa iniziativa favorisce un dialogo interculturale tra il nostro mondo e quello musulmano».
Nella sede di Douz, la professoressa di italiano, Claudia Bertacchini, 40 anni, modenese, e Beshir, 44 anni, direttore tentano di tenere alto il morale di un gruppo di questi giovani. C’è Waalid Ben Ali, 24 anni che sogna di fare l’imbianchino: «Sappiamo della legge Bossi-Fini, ma noi vogliamo solamente lavorare, comportarci bene e aiutare le nostre famiglie - dice -. Se avessimo qui il lavoro ce ne staremmo volentieri a casa nostra».
«La fatica non ci fa paura - continua Ben Abdallah Sghair, 26 anni - qui, se e quando capita, lavoriamo anche dodici ore filate per una miseria 5 o 7 dinari al giorno, tra i 4-5 euro!».
«Sì, siamo un po’ sfiduciati perché a quest’ora saremmo dovuti essere già in Italia - aggiunge Waalid Mimun, 25 anni, ex cammelliere, è l’unico ad avere il turbante bianco sulla testa -. Siamo grati a chi ci ha dato la possibilità di prepararci in cultura e lingua italiana; è giusto che chi viene da voi non si comporti da delinquente e rispetti le vostre leggi. Ma se questa speranza muore non farete altro che ingrassare i trasportatori illegali di carne umana».
Conclude Mohammed Chine, 23 anni: «Qui si sono già presentati più di una volta i reclutatori di clandestini, ma, siccome i giovani sanno che esiste questa possibilità di entrare in Italia legalmente non li hanno seguiti». Fino a quando?

Costantino Muscau


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Date: 27 Sep, 2002 on 07:21
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