CONCLUSO IL FESTIVAL
Mantova il teatro delle storie

inviato a MANTOVA

ALLA fine, dopo quattro giorni e mezzo di incontri con gli autori, la somma di tutte le presenze ai diversi eventi fa 41 mila, il che significa un numero di persone coinvolte dal «Festivaletteratura» stimabile, più o meno come nelle passate edizioni, intorno alle 30 mila. Ma non sono i numeri l'aspetto più interessante della grande kermesse conclusa ieri sera. Sono le code, le lunghe code ordinate per entrare, e quelle altrettanto spettacolari, dopo l'incontro con lo scrittore, per farsi firmare un libro. Code ubiquitarie, che non fanno torto a nessuno, lunghissime sia per Giuseppe Pontiggia, uno degli autori più amati, sia per Adonis, il poeta siro-libanese in dialogo con Giuseppe Conte. Code per James Hillmann, che ha avuto per sé l'ultimo incontro parlando delle sue letture e di psicologia del profondo, un tema non certo facile; code e sudori per Irvine Welsh o Margaret Mazzantini, dal diavolo all'acqua santa. Il pubblico è interessato, a tratti adorante, ma non soggiogato. Una signora ricorda a Tobias Wolfe e Ian McEwan un'irriferibile frase di Pulp Fiction per significare che i due si fanno troppi complimenti, un'altra sgrida Bruno Gambarotta e il cinese Mo Yan perché si sta perdendo tempo, e ride quando viene prontamente invitata a ripresentarsi «accompagnata dalla mamma». Quello di Mantova è il pubblico della libreria, in Italia purtroppo poco numeroso ma per fortuna molto motivato. Un pubblico di lettori cosiddetti «forti» che sa farsi valere, sa che il Festival gli appartiene, lo usa come un diritto. Il successo della manifestazione, giunta al sesto anno senza accusare stanchezze, non è tanto nei numeri, nelle presenze o nei libri venduti, quando nell'effetto di trascinamento. A Mantova, grosso modo, ci vanno quelli che non hanno bisogno di essere conquistati alla lettura. Ma a Mantova hanno guardato e guardano moltissimi altri festival sorti su un piano locale proprio nell'onda dei buoni risultati ottenuti qui, e che possono, loro sì, famigliarizzare i non lettori, mettere in moto un circolo virtuoso. La capitale dei Gonzaga resta unica e a sé stante, palcoscenico di tutti i palcoscenici possibili, luogo delle storie. Ripropone al mondo dei libri l'aspetto orale della letteratura, facendo tornare lo scrittore alla sua origine di narratore ambulante, con tutta la teatralità che questo comporta. Fra queste mura rinascimentali Tiziano Terzani può mettersi a gambe incrociate sul tavolino e arringare alla pace come un guru orientale; il messicano Paco Taibo II può permettersi qualche eccesso di retorica facendo del libro il perno di tutte le rivoluzioni possibili, strappando ovazioni appassionate e persino un po' inquietanti (sappiamo da tempo che le cose sono un pelo più complicate). Gino Strada può infiammare la piazza contro i bombardamenti sull'Afghanistan, ma nello stesso tempo Mo Yan può ottenere ascolto anche parlando, senza invettive «virtuose», di un argomento politicamente ultrascorretto come il divieto per i cinesi di avere più d'un figlio, che si traduce nelle campagne in una spaventosa strage di neonate. Il gioco delle emozioni è complesso: nessuno lo accusa di cinismo, il pubblico cerca di capire. Ma nel chiostro alberato dove sta parlando lo scrittore cinese, passa come il vento tra le foglie un lungo brivido.

Mario Baudino