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Terapia-choc, e gli alunni
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1. Terapia-choc, e gli alunni
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da Il Corriere della Sera
Domenica, 8 Settembre 2002

IL RICORDO

Terapia-choc, e gli alunni

di MAURO COVACICH

Tre giorni dopo, nell’Upper East Side non ci sono fumi, lapilli, cose del genere, non c’è puzza, semplicemente le persone camminano per la Lexington come se una forza divina improvvisamente, inaspettatamente, avesse strappato loro la spina dorsale da dietro il collo. Girano tutte con la stessa faccia scollegata. Io sono appena arrivato e mi faccio raccontare da un’amica italiana che insegna in una Public School del Bronx il «suo» 11 settembre. Davanti al nostro diner i newyorkesi ricchi portano a spasso i loro bassotti e la loro inedita testa morta. È stata una telefonata dall’Italia a dire ad Alessandra cos’è successo davvero. Lei alle 9.30 ha iniziato la sua lezione nel fracasso di sempre. Classe 529, le due assistenti dei bambini handicappati parlavano freneticamente al cellulare, come al solito. Solo che ogni tanto dicevano hijacked , the big tower . Una è uscita dall’aula in lacrime, ma è rientrata subito dopo, controllatissima. Alla fine della lezione Alessandra ha trovato altri colleghi che telefonavano. Ha chiesto, ma nessuno aveva ancora capito niente di preciso. «Una bomba atomica», le aveva detto uno, restando attaccato al cellulare. Alla finestra campeggiava una calma assoluta. Finché è arrivata la chiamata dall’Italia. Come stai? Sei viva? Stop, da quel momento fino al giorno dopo, i telefoni, tutti i telefoni, sono ammutoliti. La principal ha preteso che le lezioni continuassero regolarmente e solo alle 11.30, dopo che un sacco di genitori erano venuti a riprendersi i figli, ha dichiarato dagli altoparlanti che qualcosa aveva colpito al cuore New York, al che la routine è stata definitivamente ingoiata dal caos. Il personale non ha potuto comunque lasciare la scuola prima delle 15.30, orario di chiusura delle lezioni. Alessandra è corsa a comprarsi una tv. Fresca di trasloco, non ne aveva ancora una e l’unico modo per sapere cosa stava accadendo quindici chilometri più a Sud era guardare la tv. L’aveva detto anche la principal : «Chiudetevi in casa. Per sapere come comportarvi seguite la tv».
Lunedì 17 settembre, Alessandra mi invita nella sua scuola. Siamo a Throgs Neck, nell’estremità orientale del Bronx. La security guard non fa storie: abbiamo l’autorizzazione della principal . Vengo condotto dall’ assistent principal per un brevissimo benvenuto, e poi affidato alla mia amica. Alessandra ha il primo periodo libero e così restiamo in sala insegnanti, dotata di frigo, telefono e forno microonde. Due teacher chiacchierano per conto loro, mangiando pollo fritto e bevendo caffè. Dalla finestra si vede il mare. Più in là, Whitestone Bridge e la punta di Manhattan. Alessandra mi dice piano che quei due sono il collega di matematica e il collega di scienze. Il primo ha adottato «morto» come unità di misura: nelle sue lezioni i bambini moltiplicano morti, sottraggono morti, eccetera. Il secondo ha spiegato in classe a quanti gradi brucia un corpo umano, quanto tempo impiega per morire. Entrambi non fanno che applicare le direttive degli psicologi federali.
Gli psicologi sono arrivati il 13 e hanno istruito il collegio docenti in questi termini: parlatene il più possibile, solo così i bambini possono esorcizzare il trauma, fateli lavorare su ciò che è accaduto, non lasciate alle famiglie un simile fardello, e voi rilassatevi, ascoltate musica new age , compratevi una pianta e curatela, andate dal parrucchiere, dalla manicure.
Anche Miss Ramos sembra aver ascoltato gli psicologi: ha delle unghie da far paura e la sua classe trabocca di torri fiammeggianti. Alessandra me la presenta nel cambio ora, mentre i bambini ci guardano come marziani. È l’insegnante di disegno. Un ricciolino smilzo consegna per ultimo il suo lavoro: due pompieri smembrano un disgraziato col turbante sotto le Twin Towers e le immancabili piogge di impiegati del WTC. Sulla parte alta del foglio il pensierino: «Vorrei che Bin Laden e la sua famiglia soffrissero il doppio di quello che hanno sofferto gli americani di N.Y.». «Good job» dice Miss Ramos e poi a me sussurra: «He’s Said, he’s Arab» (Lui è Said, è arabo). Accompagno Alessandra alla sua classe: è lì che mi verrà a prelevare l’ assistent principal e mi porterà all’uscita. Per il corridoio c’è odore di cibo e di lacca per capelli. Camminando, incrociamo altri insegnanti che guidano colonne ordinate di bambini in trasferimento da un punto all’altro dell’edificio.
Prima di entrare in aula Alessandra mi confessa che è un po’ scoraggiata: dall’11 settembre i bambini non ne vogliono più sapere delle sue lezioni, si sono appropriati della manovra antitrauma, cavalcano abilmente il trend esorcistico, pretendono di scrivere solo poesie sui pompieri, il sindaco Giuliani, la famiglia di Bin Laden, stanno lì a disegnare aerei coi denti da squalo, hanno fiutato aria di premi. L’ assistent principal arriva in quel momento, lievemente in anticipo. Non è che possano far scorazzare in eterno un ospite, mi fa capire con il suo sorriso. Mentre ci salutiamo sulla porta della classe 529, una cicciottella nera si avvicina e chiede alla mia amica chi sono. Parlo come un marziano, rido come un marziano, sono in tutto e per tutto un marziano, ma Michelle è da due anni che studia la cultura e la geografia dell’Italia e vuole fare bella figura con la sua teacher. «You eat pizza over there, don’t you?» (Mangiate la pizza laggiù, vero?), mi chiede.
Adesso che è passato un anno e i telefoni funzionano, chiamo Alessandra per sapere se le cose vanno meglio, se è cambiato qualcosa nell’umore delle sue classi. «Be’, la principal dice che siamo tutti più maturi, e mi sa che ha ragione - mi risponde ridendo -. Stiamo guarendo. Miss Ramos si è scollata le unghie. I disegni sono tutti ingialliti. Sulle magliette delle bambine è ricomparsa Britney Spears».

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Date: 08 Sep, 2002 on 08:11
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