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1. Università o praticaccia? La formazione a un bivio anche in Italia
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da La Stampa
Lunedì, 26 Agosto 2002

Murialdi: «Il talento batte la laurea»
Università o praticaccia? La formazione a un bivio anche in Italia

GLI stereotipi dilagano nei film americani sull´informazione. C´è il giornalista bellino, colto, civile, persino sensibile, magari uscito da una prestigiosa università che viene guardato come se fosse un verme da un vecchiaccio del mestiere, eterna sigaretta (quando non era da corte marziale far fumare un attore), acido, a tratti cinico in modo francamemte ripugnante, ma che è un autentico cane da notizia. Chissà chi amava di più il pubblico e chissà con chi oggi si identificano le legioni di giovani aspiranti giornalisti? Di certo c´è solo che il dibattito sull´essere giornalista (inteso come categoria dello spirito oltrechè come mestiere) continua a appassionare una corporazione si sà un po´ narcisista. Ma è anche uno scontro di posizioni, di modi di concepire la deontologia, di interessi degli editori, di interventi sindacali.
Il segretario della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi), Paolo Serventi Longhi, un modello in testa lo ha: quello del giornalista colto e preparato che arriva in redazione dall´università, da una facoltà di giornalismo. Dice: «In Italia la formazione è affidata da sempre alle aziende e ai direttori; non ci sono scuole tranne quelle nate negli ultimi anni e riconosciute dall´Ordine. Sono pochissime; neppure una al Sud e persino una città come Torino ne è priva». Una proposta c´è: «La categoria ha scelto, sul modello dei Paesi del Nord Europa e degli Stati Uniti, di sostenere la nascita di facoltà di giornalismo. Voglio essere chiaro: non si tratta di trasformare i corsi di Scienza della Comunicazione già esistenti, ma di dar vita a un nuovo percorso». Serventi Longhi pensa a un mix di formazione diretta nei luoghi di lavoro e di formazione scientifico-culturale. «Credo molto - dice - alla possibilità di sostituire il giornalista tradizionale formatosi nelle redazioni, un po´ eroico, ma che sconta deficit di formazione e anche di deontologia con un giornalista libero, svincolato dal controllo del sistema delle imprese». È assolutamente d´accordo sulla necessità di avere nelle redazioni giornalisti più preparati; ed è assolutamente contrario alla facoltà di giornalismo. Paolo Murialdi - storico giornalista, protagonista di epiche battaglie negli Anni Settanta-Ottanta - è netto: «Il giornalismo italiano non ha una gran cultura e va benissimo che nasca una università, ma non deve essere obbligatoria perché se così fosse si andrebbe contro l´articolo 21 della Costituzione che garantisce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Aggiunge: «C´è sempre la possibilità che a possedere un vero talento sia uno che l´università non l´ha fatta. Che cosa vogliamo fare? Impedirgli di scrivere?». Murialdi riflette: «Oggi non esiste più il giornalismo, ma i giornalismi. C´è una bella differenza tra chi si occupa di economia e chi seleziona natiche e ombelichi per un rotocalco. E poi c´è Internet e la tivù e la radio e tutto il resto. Quindi va benissimo avere il massimo degli strumenti; altrimenti si va a intervistare Tronchetti Provera, non si conosce alcunchè di bilanci, si fanno domande banali e si subisce passivamente quel che dice lui».
A questo ipotetico nuovo giornalista non sarà sufficiente insegnare economia e inglese, diritto, letteratura e navigazione in rete. Dice Murialdi: «È fondamentale la deontologia, lo stile: si sono fatte aperture a molte colonne sulla presunta cellula terrorista islamica di Bologna, quelli che filmavano gli affreschi; tutti fuori adesso. Non si poteva avere un po´ più di cautela?». Enzo Biagi si definisce «di vecchia scuola romantica». Racconta: «Sono entrato in una redazione a 17 anni con un articolo sullo scrittore Moretti dal fondamentale titolo "È crepuscolare?". Uno benevolo lo ha letto, gli è piaciuto, l´ha pubblicato, mi ha dato 25 lire quando mio padre ne guadagnava 500. Ma adesso c´è ancora nelle redazioni qualcuno che abbia voglia di leggere il pezzo di un ragazzino?». Per far bene la professione secondo il grande giornalista occorrono «curiosità, non sentirsi protagonista, voglia di dare voce a chi non l´ha». E poi se ci sono strumenti di conoscenza in più tanto meglio. Dice: «È noto: la radio lancia la notizia, la televisione la fa vedere, ma spetta al giornale spiegarla. E oggi mi pare che ci sia meno la voglia dell´inchiesta per spiegare come è realmente questo paese».

Marina Cassi


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Date: 26 Aug, 2002 on 11:21
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