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Docenti universitari vecchi? Cambiamo i corsi di dottorato
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1. Docenti universitari vecchi? Cambiamo i corsi di dottorato
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da Il Corriere della Sera
Giovedì, 22 Agosto 2002

L’INTERVENTO / Per migliorare la qualità dell’insegnamento occorre che la gestione sia affidata agli accademici migliori

Docenti universitari vecchi? Cambiamo i corsi di dottorato
In questa maniera sarà possibile frenare la fuga dei cervelli all’estero e favorirne il rientro

Il rapporto del Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, presieduto da Giuseppe De Rita, cui il Corriere ha dato ampio risalto il 27 luglio scorso, ha messo in luce un problema: l’invecchiamento dei docenti universitari italiani e degli stessi ricercatori che li dovranno sostituire. In altri Paesi europei e negli Stati Uniti l’età media dei docenti è decisamente inferiore. Nel 2017, anno in cui sembra che dovremmo sostituire il 45% dei docenti attuali, potremmo trovarci impreparati. La Conferenza dei Rettori (Crui) mette in guardia di fronte a due rischi: l’importazione di docenti dall’estero e l’immissione di nuovi docenti senza garanzie di qualità. Che fare? Qui noi vogliamo sottolineare con forza la strada percorsa dai Paesi che, per quanto riguarda la formazione post-laurea, hanno un sistema accademico più evoluto. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna non si diventa oggi docente universitario se non si ha conseguito il dottorato di ricerca, ossia un training post laurea di almeno 4 anni in cui gli studenti vengono iniziati non solo all’esperienza di ricerca, ma anche allo spirito più profondo del mondo accademico, basato su regole di dibattito aperto e di discussione scientifica, sul rigore delle affermazioni, sullo sforzo personale alla ricerca dei risultati di successo.
A prima vista sembrerebbe che in Italia si stia andando in questa direzione. Sono nati i dottorati di ricerca e sempre più studenti vi accedono. Peccato che ci sia un dettaglio importante: non basta chiamare qualcosa con lo stesso nome perché sia la stessa cosa! La stragrande maggioranza dei dottorati italiani è infatti molto lontana dai dottorati internazionali che preparano alla ricerca, all’insegnamento e allo spirito «scientifico». A differenza di questi ultimi, non prevedono un sistema strutturato di corsi e di esami, e spesso le tesi non sono parte di progetti di ricerca di più ampio respiro perché mancano professori in grado di lanciare e di aggiudicarsi progetti del genere.
Non è difficile immaginare ciò che si potrebbe fare. Sarebbe abbastanza naturale affidare la gestione dei dottorati agli accademici italiani con esperienza di dottorati esteri e con un buon riconoscimento dalla comunità scientifica internazionale. Oggi in Italia queste sono le persone più preparate per organizzare dei dottorati di alto livello, promuovere relazioni con docenti ed atenei esteri, creare un sistema che anche da noi possa diventare una fucina di docenti universitari con buone garanzie di qualità. I dottorati seri servono a produrre docenti seri e dunque a risolvere il problema più generale della qualità dei docenti per le lauree e i diplomi di laurea, dove accedono le grandi masse di studenti. I dottorati di alto livello sono cioè una pre-condizione anche per la qualità del sistema universitario in generale.
Due considerazioni conclusive. La prima è che dottorati fatti in questo modo hanno una funzione ulteriore: quella di frenare la fuga dei cervelli e di aiutarne il rientro, quanto meno dei giovani che studiano oggi negli Stati Uniti o in Gran Bretagna e che tendono a rimanerci, spesso come docenti nelle loro università. Alcuni di questi giovani restano fuori in gran parte perché gli stipendi, specie nelle università Usa, sono più alti. Ma molti restano anche perché l’esistenza di un programma di dottorato valido è una garanzia di una buona attività di ricerca, consente attività di insegnamento adeguate alle competenze raggiunte ed è una base per buoni studenti e assistenti con cui discutere e dare vita ad una atmosfera stimolante sotto il profilo scientifico.
Un amico del dipartimento di economia di Harvard, Ariel Pakes, ci diceva pochi giorni fa che uno dei motivi per cui oggi Israele riesce a far ritornare parecchi cervelli è proprio il fatto di aver lanciato dei buoni programmi di dottorato, che attirano il ritorno di docenti e studenti israeliani all’estero.
L’altra considerazione è di carattere più politico. Si è detto che i dottorati seri vanno affidati a chi li sa fare. Ma è proprio questo che incontra resistenze in alcune sacche del mondo accademico italiano dando vita ad un meccanismo involutivo. Chi è nato, è cresciuto ed è protetto dal sistema esistente, teme il nuovo. Si controllano perciò gli ingressi e si danno pochi spazi ai giovani o più in generale a chi potrebbe essere più bravo e mettere in difficoltà gli equilibri esistenti.
Meglio allora i dottorati attuali che sono più facilmente controllabili e che non mettono a nudo la pochezza di alcuni nostri dipartimenti universitari e di alcuni nostri docenti. Il sistema invecchia e al tempo stesso resiste al suo «svecchiamento», così come allo sviluppo di dottorati veri e all’innalzamento della qualità delle strutture universitarie e dei docenti. Ciò di cui avrebbe bisogno soprattutto il sistema universitario italiano è dunque di alcuni policy-maker coraggiosi, siano essi a livello di governo nazionale, o di governo delle strutture accademiche, che rompano questa spirale involutiva, affidando almeno le cose nuove, come i dottorati, a persone in grado di farle funzionare, all’interno di entità organizzative almeno parzialmente autonome - in qualche modo simili alle «Graduate Schools» anglosassoni -.
Solo così, crediamo, è possibile formare una classe di docenti universitari all’altezza delle esigenze di un Paese che ha bisogno di accedere in maniera molto maggiore alla «frontiera delle conoscenze», scientifiche e tecnologiche.

* Professore Ordinario, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
** Professore Straordinario, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa


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Date: 22 Aug, 2002 on 08:05
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