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1. COME LEVI E PAVESE
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da Il Corriere della Sera
Martedì, 6 Agosto 2002

COME LEVI E PAVESE

di PAOLO DI STEFANO

TORINO - Franco Lucentini se n'è andato all'alba di lunedì lasciandosi cadere nel vuoto delle scale di casa sua, a Torino, come Primo Levi quindici anni fa. Aveva da poco superato gli ottanta e un tumore lo aveva condannato da tempo. Era stanco, stufo, dicono i pochi che l'hanno frequentato fino all'ultimo. Stanco della malattia, che lo costringeva quasi all'immobilità. Ma nessuno potrà mai sapere che cosa gli sia passato per la mente, alle cinque del mattino, dopo poche ore di sonno o di insonnia. Neanche sua moglie Simone, francese, più anziana di lui, neanche l'altro suo compagno di vita, Carlo Fruttero, che con Lucentini ha condiviso i sentimenti più profondi passati attraverso la scrittura in simbiosi di molti romanzi, articoli, versi, traduzioni. Fatto sta che il suo corpo instabile è stato attratto dal vuoto ottuso di una tromba delle scale strettissima, in cui neanche un pallone da calcio può passare senza rischiare di sbattere a destra o a sinistra.
L'appartamento di Lucentini e di sua moglie è al quarto piano di un edificio neoclassico, elegante e sobrio, al numero uno di piazza Vittorio. Dalle sue finestre si vede la spianata che si affaccia, oltre il Po, sul verde della collina, ai piedi della quale siede con solennità la Gran Madre di Dio. E' una casa ottocentesca che in alto, all'imboccatura di via Po, si arrotonda dolcemente.
Per accedere al portone ci si infila sotto porticati dalle volte basse che ricordano, persino nel colore giallino, quelli di piazza Carlo Felice, da cui sporge l’insegna rossa dell’Albergo Roma che ospitò l’ultima notte di Cesare Pavese, il 26 agosto 1950.
La cameretta di Pavese, la 346 al terzo piano, è rimasta come quella sera, con il lettino di ferro a sinistra, un abat-jour sopra la testiera di legno, il telefono nero di bachelite appeso al muro, una comoda poltrona rossa, la cappelliera alta e stretta. Anche il portone lucido somiglia a quello del numero uno di Piazza Vittorio. Così come gli specchi al pianterreno e le poltroncine di velluto bordò ricordano gli addobbi del vecchio Caffè Elena, dove Lucentini, a un passo da casa, si soffermava volentieri e ai cui tavolini di marmo qualche decennio fa Pavese restava a scrivere per ore.
«Pavese e Primo Levi - dice Roberto Cerati, presidente dell’Einaudi - sono fantasmi che continuano ad aleggiare su questa città. Una città che ha la magia del dolore nascosto, inespresso, solitario». Cerati, che in casa editrice vide arrivare da Parigi, nel ’53, Fruttero e poi, nel ’55, Lucentini, da milanese conosce bene Torino, pur avendola vissuta tra le pareti bianche di via Biancamano. Così come conobbe bene Pavese, Levi e Lucentini. Tre tipi indubbiamente diversi tra loro: il primo afflitto dal suo «vizio assurdo»; il secondo indelebilmente ferito da un passato che non passa; Lucentini «dolcissimo e malinconico, scrupoloso e sereno», che all’opposto di Fruttero amava il piacere del silenzio. Ma c’è un fatto: «A Torino - dice Cerati - non devi essere mai lasciato solo, perché è una città in cui, quando si attenua la tensione del lavoro, entri in uno stato di solitudine da cui niente può salvarti». Neanche la scrittura. Neanche la cultura onnivora di chi, come Lucentini, leggeva tutto e conosceva innumerevoli lingue (persino, pare, il cinese, imparato in prigione durante la guerra).
Del resto, è stato lo stesso Fruttero a dire, senza mezzi termini, di essere fuggito nel ’47 a Parigi perché Torino gli pareva «un buco senza nome, grigio, triste, lugubre». Se lo poteva permettere, essendo lui torinese doc. Chissà se per la stessa ragione Lucentini, romano, scelse di fare il pendolare tra l’Italia e Parigi, dove ancora aveva una casa. Invece, gli occhi di un ospite in un afoso pomeriggio d’agosto colgono, di Torino, solo uno degli aspetti narrati nella Donna della domenica : l’aspetto geometrico, austero e solenne, non quello misterioso e malefico sulle cui tracce la premiata ditta F & L sguinzagliò nel ’72 il commissario siciliano Santamaria, «uno che conosce l’ambiente».
Il palazzo al 75 di corso Re Umberto ha un maestoso portone di legno, con decorazioni a conchiglia che ricordano le raggiere incise in Piazza Vittorio 1, e con fregi e volute quasi uguali. Sulla targa d’ottone del citofono, il settimo nome partendo dal basso, nella fila di sinistra, è quello di Levi. Non ci si può passare con indifferenza, anche perché si percepisce subito un’assoluta sobrietà che si smorza appena guardando il palazzo di fianco, dove i balconi esibiscono gerani rossi e rosa. Al 75, niente, solo una parete nuda di antichi mattoncini un tempo rossi che contrastano con la striscia grigia dell’ultimo piano decorata con piccole corone ancora più pallide.
E ci si chiede se, oltre ai severi involucri neoclassici dietro cui si nascosero le vite di Pavese, di Levi e di Lucentini, c’è qualcos’altro che accomuna la scelta di andarsene volontariamente, in questa capitale «edificata a immagine e simbolo del potere» come ha scritto Valerio Castronovo e «improntata a un senso vigile della misura e alle virtù quotidiane del lavoro». Al di là delle ragioni profonde di ciascuno, che è sacrosanto lasciare al loro mistero inattingibile, una luce che aiuta a illuminare uniformemente tre scrittori tanto diversi la troviamo in una lettera di Italo Calvino.
Nel ’64 la coppia F & L aveva terminato per Einaudi un’antologia di racconti americani contemporanei: un sodalizio che avrebbe anticipato la scrittura in simbiosi dei romanzi, perché, ha ricordato Fruttero, «fare un’antologia con un altro significa andare d’accordo nei minimi particolari e avere in comune un sacco di virtù fondamentali: gusto letterario, buon senso, equilibrio, tolleranza». L’antologia fu accolta però come un lavoro «provocatorio», che si opponeva deliberatamente (specie nella prefazione, dal tono «perentorio e intimidatorio», dirà Calvino) ai criteri cui erano ispirate precedenti scelte di Pavese e di Vittorini. Il tutto si risolse con uno scambio di insulti tra Lucentini e Calvino. Ma quest’ultimo, cercando di far valere le proprie ragioni, in una lettera fece un ritratto dell’«avversario» che oggi può aiutare a coglierne la personalità non solo letteraria. Calvino sosteneva che in quella prefazione si sentiva l’«influenza di Fruttero più della tua», perché «tu per me sei quello di Borges e Robbe-Grillet, sei quello sempre alla ricerca d’una integrazione tra scienza e letteratura. Sei quello che faceva progetti di una "letteratura cosmica". Questo tipo particolare di assolutezza che tu perseguivi attraverso estreme scommesse...».
Lucentini obietterà tra l’altro che «il piano ideologico... per me si identifica sempre con quello affettivo, né riflette altro che transitoriamente i vizi e le virtù private di ciascuno, le sue buone o cattive maniere». Ma quella ricerca di «assolutezza» e di una «integrazione tra scienza e letteratura» di cui parla Calvino non è forse la stessa che troviamo, sia pure con risultati differenti, nella precisione ossessiva di Cesare Pavese scrittore e redattore editoriale e di Primo Levi, i quali forse sono, per di più, tra gli scrittori meno ideologici del dopoguerra? La Torino della misura e del lavoro poteva certo apparire come un’ottima città in cui vivere, per i loro caratteri silenziosi e ostinati. Ma non era una città in cui spegnersi con dolcezza e serenità.
Il più bel ritratto di Lucentini, è superfluo dirlo, l’ha scritto Fruttero. Che al sorriso del suo amico dedicò un passo memorabile: «Si tratta di un sorriso dove confluiscono tutti i temi della sua opera di scrittore: contiene, in superficie, confusione, impaccio, una sorta di sbigottito deglutimento di recluta, che coprono appena una tremula richiesta di perdono, un’ammissione d’inettitudine a vivere, di completa vulnerabilità e un fondo di sconfinata, disastrosa tenerezza verso le minime cose del creato, di comprensione per ogni concepibile debolezza, follia, bassezza e contraddizione umana. E un sorriso mite, soave, sincero, disarmante e il suo effetto su chi lo vede la prima volta è infallibile: ecco finalmente, si pensa, un Uomo Buono». Un uomo buono e un genio, aggiungeva Fruttero. Il genio di un soldato inetto che marciava sempre fuori dai ranghi, dimenticava lo zaino, si svegliava in ritardo. Ma nell’estate del ’43, quando ci fu da smontare e rimontare un fucile modello ’91, lo fece in soli dieci secondi, al di sotto della media nazionale. Qualche secondo in più, probabilmente, di quel che gli è servito lunedì all’alba per prendere la sua ultima decisione.

Paolo Di Stefano


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Date: 06 Aug, 2002 on 08:02
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