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Ogni quindici giorni muore una LINGUA
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1. Ogni quindici giorni muore una LINGUA
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da Il Corriere della Sera
Venerdì, 7 Giugno 2002

Lo studioso francese Claude Hagège racconta in un saggio una tendenza che sembra inarrestabile. E lancia un appello per un patrimonio inestimabile

Ogni quindici giorni muore una LINGUA

Fra cento anni ce ne saranno la metà. Alcune scompaiono per eutanasia


Ogni quindici giorni nel mondo una lingua muore. E con essa scompare una cultura, l'espressione di una civiltà con la sua storia e la sua tradizione. Se questa tendenza non verrà in qualche modo arginata, nell'arco di 100 anni, dei circa 5000 idiomi oggi in vita sulla terra più della metà non avrà neanche un parlante. È una notizia che deve far riflettere perché una lingua è un patrimonio straordinario, unico. Ogni idioma porta con sé un modo particolare di pensare, una visione del mondo che appartiene a quei parlanti e soltanto a loro. Ci sono immagini, colori, profumi, emozioni, sensazioni, paure, attimi di felicità, che appartengono a quella lingua e che nessun altra è in grado di esprimere con le stesse sfumature. Neanche la migliore delle traduzioni possibili. Le parole usate da un popolo per raccontarsi, appartengono a un percorso, un viaggio nella storia, che non può essere riprodotto in laboratorio, non può essere mantenuto in vita artificialmente. Come un organismo vivente ha bisogno di condizioni particolari per sopravvivere, così le lingue vanno tutelate e protette. Non pochi linguisti negli ultimi anni hanno lanciato, a più riprese, segnali di forte preoccupazione, cercando di sensibilizzare la comunità internazionale. Un contributo a questa battaglia arriva da Claude Hagège, linguista del Collège de France, con un libro dal titolo Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell'umanità , edito da Feltrinelli.
Hagège, si capisce immediatamente dalle sue parole, è uno studioso profondamente innamorato della professione e di ciò che studia. E per questo il suo libro è soprattutto un invito, a volte anche con risvolti e toni poetici, a entrare nel mondo misterioso e affascinante delle lingue per cogliere la bellezza delle diversità. Hagège tratta le lingue come veri esseri viventi, ma, in realtà, attribuisce loro una caratteristica che nessun’altra specie possiede: «l'immortalità». Scrive l’autore: «Dalla morte non si torna. Un morto non può riguadagnare le rive della vita come si rientra da un viaggio o ci si risveglia dal sonno. È "sufficiente", invece, che una lingua scomparsa torni a essere parlata perché smetta di essere morta. La morte di una lingua non è quella di una parola». E aggiunge: «Ciò non significa che sia facile risuscitare una lingua, vale a dire restituirle la parola. Anzi, è un'impresa estremamente ardua». Ma non impossibile. Valga per tutti il caso, bellissimo e coraggioso, dell'ebraico, tornato ad essere lingua parlata dopo 2500 anni, grazie alla determinazione e alla volontà di un «drappello di visionari», e più in particolare di un uomo: Eliezer Perelman (1858- 1922), che assunse in seguito il nome di Ben Jehudah. Studioso che ad appena vent'anni capì improvvisamente che il futuro di uno stato israeliano passava attraverso «la necessità di fornire anche al popolo ebraico gli strumenti» linguistici «per liberarsi da una tutela straniera quasi sempre ossessiva».
Ma il «miracolo» dell'ebraico non deve illudere. Gli equilibri linguistici a livello mondiale sono molto precari. In alcune aree dilaga lo strapotere di alcuni idiomi rispetto ad altri. Il caso più evidente è la superiorità dell'angloamericano. Una lingua che afferma soprattutto un potere politico-economico. In molte comunità, parlare una lingua diversa da quella dominante, viene visto come una vergogna, la gente «si persuade che quella lingua non sia adatta a esprimere la modernità e non sia in grado di esprimere le idee astratte, senza sapere evidentemente - spiega Hagège - che qualsiasi lingua ha questo potere, purché ci si prenda la briga di creare dei neologismi».
In alcuni casi la conseguenza di questa convinzione si traduce nell'abbandono volontario della propria lingua. Tra gli studiosi, uno dei casi più noti è quello degli yaaku, una popolazione del Kenya centrosettentrionale, che a un certo punto, in una assemblea pubblica presenti tutti i leader della comunità, scelse di abbandonare il proprio idioma per passare a quello dei loro vicini, i masai. Un fenomeno, questo dell'abbandono volontario, che ha colpito anche molti giovani, ad esempio, delle tribù indiane del nord America.
Spesso, queste trasformazioni sono avvenute nella totale indifferenza delle istituzioni. Eppure le cifre sono terribili: delle 5000 lingue esistenti, 600, «vale a dire un po’ meno di un ottavo, sono parlate da più di 100 mila parlanti, mentre 500 sono parlate da meno di cento persone. Inoltre il 90% delle lingue del pianeta è parlato dal 5% circa della popolazione mondiale».
La domanda che occorre farsi oggi è molto semplice: come possiamo salvare, almeno in parte, questi «mondi» lontani? Non è facile proporre una soluzione, ammesso che ce ne siano. E anche Hagège non avanza grandi proposte.
Sicuramente vanno sostenute e aiutate le scuole di linguistica, create nuove figure professionali, coinvolti i giovani, addestrati bravi ricercatori, incentivato il lavoro sul campo. Bisogna al più presto, anche grazie a Internet, creare grandi banche dati, e le istituzioni devono impegnarsi a sostenere il plurilinguismo. Ma per fare tutto questo occorrono fondi. Serve denaro per i progetti, i programmi di tutela, le catalogazioni. Con la consapevolezza che tutto questo non porterà profitti. Ma nella migliore delle ipotesi servirà a conservare la semplice memoria di alcune delle lingue, un tempo, parlate dall’uomo.

Il libro di Claude Hagège, «Morte e rinascita delle lingue. Diversità linguistica come patrimonio dell’umanità» (traduzione di Luisa Cortese, editore Feltrinelli, pp. 248, euro 25), è da oggi in libreria


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Date: 07 Jun, 2002 on 06:57
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