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Università, una riforma da azzerare?
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1. Università, una riforma da azzerare?
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da La Stampa
Sabato, 20 Aprile 2002

DA POCO OPERATIVA, ALCUNI GIÀ LA VORREBBERO CAMBIARE. MA TORNARE ALL’ANTICO NON CONVIENE

Università, una riforma da azzerare?

di Roberto Moscati
Università di Milano-Bicocca

Alcuni esponenti del ministero dell'Istruzione, Ricerca e Università lasciano intendere che si ritiene giunto il momento di modificare la riforma dell'Istruzione superiore introdotta dal precedente governo e divenuta operativa lo scorso anno accademico. In particolare, sembra che si voglia cambiare la durata dei corsi di laurea di primo livello, portandolo per le facoltà umanistiche da tre a quattro anni. Il periodo triennale non sarebbe considerato sufficiente a fornire una preparazione adeguata per una serie di ruoli professionali e la scansione sequenziale tra un primo livello di tre anni e un secondo di due «costringerebbe i professori a suddividere le materie» (come segnala il sottosegretario Siliquini nell'intervista rilasciata a Italia Oggi del 4 aprile).

D'altro canto, in casi come quello di Giurisprudenza - segnala Massimo Luciani su La Stampa dellƎ aprile - per consentire il conseguimento del titolo nel triennio si dovrebbero impartire «corsi semplificati, e allora si formano studenti con basi culturali molto fragili, sulle quali è impossibile costruire l'impalcatura degli insegnamenti specialistici del successivo biennio di studi». La prima considerazione che sorge spontanea riguarda la perentorietà di simili affermazioni non suffragate da nessuna verifica concreta. Ed è almeno singolare che queste preoccupazioni precedano il completamento del primo triennio dei corsi di laurea di primo livello e la mera elaborazione (in molti casi ) degli stessi programmi dei corsi di laurea specialistici.

Questa frettolosità suscita qualche interrogativo circa le motivazioni delle critiche e delle proposte di cambiamento. Una riflessione che muova dalla riforma in atto non può non segnalare la forte accelerazione impressa alle fasi di progettazione e realizzazione dei nuovi ordinamenti didattici. La necessità di rispettare i tempi della politica ha costretto una parte del personale docente a impegnarsi severamente nella costruzione dei nuovi percorsi mediando tra vincoli ministeriali e risorse disponibili. L'impegno è stato considerevole e soprattutto di tipo nuovo. Il ceto accademico italiano non era certo abituato a occuparsi della progettazione e gestione dei propri corsi di laurea e, per estensione, a farsi carico della propria facoltà e del proprio ateneo. Lo stress è stato grande ma a quel che sembra da numerosi indicatori ha fatto sì che coloro che si sono maggiormente impegnati nel processo di riforma siano anche quelli che oggi più decisamente la difendono.

Tuttavia, il nodo principale oggi riguarda non tanto gli aspetti «ingegneristici» della costruzione dei nuovi percorsi quanto quelli qualitativi propri al cosa insegnare (contenuti dei programmi) e al come insegnare (modalità didattiche). Qui sorgono le difficoltà maggiori perché si richiede di ripensare alla struttura dei propri corsi (quanta parte conservare, quanta sacrificare) e al coordinamento con quelli compresi nel medesimo curriculum; e si richiede altresì di ripensare alle caratteristiche dei propri studenti e al come coinvolgerli meglio al fine di ridurre l'endemico tasso di abbandono. Si tratta, in sintesi, di un necessario processo di cambiamento in alcune delle proprie prassi professionali ed è naturale che le resistenze alla fatica di cambiare siano sovente assai decise.

A questo si aggiunge, in alcuni settori disciplinari più che in altri, l'emergere di una tradizionalmente latente ma tutt'altro che trascurabile resistenza ad accettare l'idea della fine dell'università di (per le sole) élite. Questo è un problema che ha interessato i processi di transizione di numerosi sistemi universitari occidentali negli ultimi decenni e che ha trovato distinte soluzioni politiche miranti a salvare un più alto livello d'istruzione per la maggior parte possibile di cittadini assieme alla formazione di alta qualità per una minoranza, ma che necessita di un ripensamento da parte del corpo docente circa le proprie funzioni professionali di formatori.

La somma di queste due resistenze al cambiamento, che non a caso coinvolge in maggior misura alcune frange di docenti anziani appartenenti a settori disciplinari dove la riflessione sulla didattica tradizionalmente non ha avuto particolari sviluppi (ad esempio Giurisprudenza), rappresenta un'area di scontento che ovviamente si autogiustifica con motivazioni (ritenute) nobili e dunque convincenti: l'inadeguatezza della formazione culturale per successivi approfondimenti e/o per l'ingresso nel mondo delle professioni. L'impressione è che in qualche modo tale scontento torni comodo a un governo che con una malintesa interpretazione del sistema maggioritario - già vista in altri settori - senta la necessità di cambiare il pregresso per dimostrare la propria diversità.

Da qui la fretta di cambiare senza aspettare il completamento di un processo così vasto e complesso come la riforma degli ordinamenti didattici nel nuovo statuto di autonomia dell'Università. Ma davvero conviene - o semplicemente si può - ritornare all'antico? Sarebbe utile al riguardo ripensare alle ragioni che hanno ispirato la riforma (come ha fatto Luigi Berlinguer su La Stampa dellཇ aprile) e in particolare guardarsi intorno e vedere come si orientano i sistemi d'istruzione superiore in Europa. Vi è ormai una considerevole messe di documenti dell'Unione Europea (oltre alle pubblicazioni dei singoli paesi) che sarebbe bene trovassero una qualche diffusione nel mondo accademico e in quello politico del nostro paese.

Basterà ricordare quella Carta sui principi della riforma universitaria europea meglio nota come «Bologna Declaration» firmata da 29 paesi nel 1999 quale tappa centrale di un processo che prosegue e si allarga ad altri paesi. Tra i principali obiettivi della Dichiarazione vanno annoverati (1) l'adozione di un sistema di titoli comparabili per rilievo culturale e professionale, (2) l'adozione di un sistema basato su due cicli, un primo di base triennale e un secondo di specializzazione, (3) l'adozione di un sistema comune di crediti formativi al fine di favorire la mobilità degli studenti tra le diverse nazioni. In particolare, il primo ciclo triennale nel 1999 era già stato introdotto da Belgio, Danimarca, Germania, Portogallo, Spagna, Finlandia, Svezia e Gran Bretagna. Austria e Francia lo introducevano in quell'anno.

Infine, sempre per restare a livello internazionale, occorre dire che i problemi attualmente dibattuti circa l'evoluzione dei sistemi d'istruzione superiore sono ben altri che non l'aggiunta o la cancellazione di un anno a uno dei cicli formativi. E vanno dai processi di finanziamento, gestione e controllo delle istituzioni universitarie ai meccanismi di accesso e di percorso/raggiungimento dei titoli degli studenti, ai processi di internazionalizzazione, alla diffusione della formazione permanente/ricorrente (life long learning), all'insegnamento a distanza e all'uso delle nuove tecnologie (e-learning), alla realizzazione di livelli crescenti di autonomia e di valutazione delle prestazioni dei singoli atenei. Su tali temi il dibattito in Italia non sembra particolarmente vivace e questo non pare un buon segno per il futuro del mondo accademico e del paese in generale.


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Date: 20 Apr, 2002 on 08:53
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