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Ci rimane l’arte di tacere
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1. Ci rimane l’arte di tacere
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da Il Corriere della Sera
Sabato, 30 Marzo 2002

Legittime difese
Ci rimane l’arte di tacere

di CLAUDIO MAGRIS


Karl Kraus, il grande poeta satirico viennese e implacabile smascheratore di ogni violenza e falsificazione, disse, quando il nazismo salì al potere, che su Hitler non gli veniva in mente nulla, che Hitler non gli stimolava alcuna riflessione né reazione. Sceglieva il silenzio, sapendo di non avere altre armi, per dimostrare almeno il suo disprezzo al male, negandogli qualsiasi dignità e rilevanza, perfino la capacità di diventare oggetto dei suoi pensieri. Naturalmente, come egli sapeva bene, non era certo quello schiaffo morale che poteva ostacolare l’infamia nazista. In altre circostanze, invece, il silenzio e la non-presa d’atto possono essere un’efficace arma politica, che colpisce l’avversario più di tante urlate polemiche.
La breve fortuna di Jörg Haider, ad esempio, è stata aiutata dalle giuste ma improvvide contestazioni del suo becero populismo xenofobo, che hanno ingigantito la sua importanza, dandogli un rilievo e dunque - per fortuna brevemente - un peso politico che altrimenti non avrebbe avuto. Infatti, ora che nessuno gli dedica lusinghiere proteste, degne di personaggi odiosi come lui ma ben più rilevanti di lui, la sua stella è in declino e le sue sortite, senza la cassa di risonanza della polemica, hanno perso vigore.
Solo la concreta situazione politica, ossia la gravità della minaccia, può stabilire quando è più efficace gridare o tacere, contestare o ignorare, per non sottovalutare un pericolo reale, permettendogli così di crescere, o per non sopravvalutarne uno poco consistente, incrementando così la sua portata. L’arte di tacere - sulla quale l’abate Dinouart ha scritto nel 1771 un aureo libretto dal titolo omonimo, edito da Sellerio, nella versione di Chiara Bietelotti - non è una mistica del silenzio ineffabile né una sdegnosa solitudine, falsa come ogni atteggiamento aristocratico e spiritualeggiante, che presuma di poter appartarsi in una nobile interiorità e chiudersi agli altri, al dialogo, alla società, al mondo.
L’arte di tacere è una particolare arte della comunicazione e dunque del rapporto con gli altri; essa valuta il momento di dire e quello di non dire, il significato del non-detto, l’intensità delle pause fra le parole, il ruolo che hanno - in ogni discorso - il ritmo, le cesure, le ripetizioni enfatiche e le reticenti, discrete o feroci omissioni.
L’arte del tacere riguarda ogni sfera delle relazioni umane - l’amore, l’amicizia, la cultura. Oggi quest’arte sembra pressoché sparita, distrutta dall’imperativo universale: «parliamone». Il vescovo di Como, per esempio, ha perso un’ottima occasione di tacere andando in televisione - come riferisce Le Monde - a discutere, con una signora francese, di un noiosissimo e banale libro scritto da quest’ultima, che enumera prolissamente esperienze e dettagli sessuali di ogni genere, che non diventano mai momenti dell’esistenza di una persona ma si susseguono come una fiacca litania. Se la signora elencasse, con altrettanta incapacità espressiva, reiterate pratiche devozionali, sarebbe altrettanto stucchevole, ma il suo libro non godrebbe probabilmente del vasto successo internazionale che incontra grazie alla sua vaga aura trasgressiva, merce innocua ma redditizia.
Perché il monsignore è andato a parlare di quel libro, non più degno di innumerevoli altri? Per fortuna ha avuto il buon senso di non tuonare contro la sua immoralità, deludendo così la scrittrice - Roland Barthes avrebbe detto la scrivente - la quale sperava di attirarsi i fulmini della Chiesa e di potersi così sentire una martire dell’intolleranza, una collega di Galileo e di Giordano Bruno, anche se esposta al calore dei riflettori e non al rogo. Il successore degli apostoli - tale è ogni vescovo - ha ritenuto invece di mostrarsi affabile, politicamente corretto, uomo di mondo e di una Chiesa che sa stare al mondo.
Il pastore della diocesi, in quel caso, ha obbedito alla logica del gregge, che impone i temi, i nomi, i titoli su cui è obbligatorio partecipare e intervenire. Forse l’arte di tacere - ossia di soppesare e ripartire silenzi e parole, astensioni e interventi - non è mai stata necessaria come oggi. Il mondo in cui viviamo concede largamente libertà di opinione, ma costringe a dire la propria opinione sui temi all’ordine del giorno e detta l’ordine del giorno; non giustifica assenze e non tollera che non si riempiano le caselle del questionario prestabilito.
Si dà ad esempio per scontato che uno debba aver letto o visto un certo film o libro, come se fosse possibile vederli o leggerli tutti e come se uno facesse apposta a non leggere, a non voler leggere - o vedere, ascoltare - una determinata opera, mentre semplicemente accade, con tutte le grane che ci toccano, di non riuscire materialmente a farlo.
Nessuno teme di passare per snob se confessa di non aver letto l’uno o l’altro romanzo di Dostoevskij, pur amando profondamente Dostoevskij. In questo caso, tutti capiscono che la vita è difficile, piena di cose da fare, affanni, fatiche e dolori ma anche intoppi quotidiani, tubi che spandono e idraulici che non arrivano; nessuno pretende, nemmeno dal vescovo di Como, che, con tutti i fastidi e gli impicci che ci piovono addosso, si trovi il tempo di conoscere tutto Dostoevskij.
Invece si presuppone a priori che il prelato e ogni persona non estranea ai libri e al mondo debba conoscere il libro di quella gentile signora e ogni altro prodotto del momento altrettanto ben reclamizzato.
La libertà di leggere o non leggere - o di riuscire a leggere o no - Dostoevskij non ha nulla a che vedere con uno sciocco atteggiamento reattivo da snob o da bastiancontrario, perché non c’è nulla di più gregario della velleità di distinguersi da ciò che fanno gli altri, venendo così ancor più condizionati, sia pure a rovescio, dal loro comportamento. È semplicemente la libertà di fare ciò che, in quel momento, possiamo o desideriamo fare; anche andare a spasso anziché a sentire un mirabile e irripetibile concerto, se quella sera il nostro cuore ha bisogno di sgranchirsi le gambe più che di aprirsi a immortali sinfonie. Tanto più ciò dovrebbe essere lecito se il direttore, contrariamente a quanto strombazzato, non è un Von Karajan.
L’implicito ricatto che presuppone e impone l’attenzione universale a un determinato oggetto storpia a priori la discussione, travisa i giudizi, altera le misure. Quando, ad esempio, come succede periodicamente, un film mediocre ancorché gradevole viene celebrato quale capolavoro, o un articolo leggibile benché melensamente eclatante e in complesso trascurabile desta pulsioni esaltate quasi fosse l’ennesima Madonna di legno che piange, non è più possibile discuterne con pacatezza ed equilibrio.
Nella totalizzante e totalitaria enfasi mediatica ogni parola viene stravolta. Il rispettoso ridimensionamento di una esagerata sopravvalutazione viene recepito, contro ogni intenzione, come una stroncatura e oggettivamente lo diventa, nel delirio della falsa informazione; ogni obiezione viene dilatata a denigrazione, che a sua volta produce nuove esaltate celebrazioni; ogni onesto e misurato giudizio personale viene distorto in una posa ideologica. Tutto, l’osanna come l’insulto, fa brodo, concorre ad accrescere e a gonfiare il fenomeno già enfiato a sproposito, incrementa e ispessisce l’incenso della liturgia universale.
Ci rimane, pur sempre, la possibilità di non partecipare al gioco dell’oca, di marinare la scuola, di mentire - per legittima difesa - assicurando di aver fatto i compiti, studiato la lezione, imparato a memoria nomi, titoli e date, anche se non abbiamo aperto libro. Ci rimane, nelle sue varie gamme, l’arte di tacere. Ci sono cose, dice un proverbio viennese, che non bisogna neanche ignorare, perché già ignorarle è troppo.

Claudio Magris


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Date: 30 Mar, 2002 on 08:04
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