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Tullio De Mauro compie settant'anni
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da Repubblica
Domenica, 24 marzo 2002

Tullio De Mauro compie settant'anni

Nello Ajello

A giorni, Tullio De Mauro compirà settant´anni. Una vita divisa fra cultura e politica, anche se in maniera diseguale. L´accento cade, certo, sul primo dei due vocaboli. Non va tuttavia dimenticata l´attenzione che il maggiore linguista italiano riserva alla società. Soprattutto, non è da sottovalutare il legame che egli continua a ribadire fra le parole e la vita. Sono questi i termini di un bilancio, culturale ed esistenziale insieme, che questo compleanno lo induce a tracciare.

Professor De Mauro, cominciamo dalla fine. Dieci mesi fa lei era ministro della Pubblica Istruzione. Quella carica sembrava coronare una lunga passione per la scuola italiana, alla quale ha dedicato numerosi saggi. Quali ricordi le lascia quell´esperienza?
«Non riesco a pentirmi d´aver accettato quell´incarico. Ho potuto vedere dal di dentro come funziona quell´enorme macchina che è il ministero della Pubblica Istruzione, liberandomi fra l´altro da qualche pregiudizio. Molti hanno una pessima opinione della burocrazia e dei burocrati. L´avevo anch´io. Ho dovuto ricredermi. Ho trovato nel ministero funzionari e dirigenti impegnati, lucidi, attivi. Penso che in molti altri ministeri si possano scoprire sacche impreviste di efficienza. Questo significa che la classe politica deve fare i conti con se stessa, senza scaricare colpe su ipotetiche malefatte o scarsa disponibilità della burocrazia».

La si vedeva di continuo, da ministro, visitare istituti, parlare con insegnanti e allievi…
«La scuola ha fatto e fa tutto il possibile per combattere l´arretratezza culturale del nostro paese. E´ una condizione sfavorevole che abbiamo ereditato: siamo in ritardo di tre o quattro secoli rispetto alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania. Il fascismo aveva lasciato alla Repubblica sei cittadini su dieci senza licenza elementare e sette su dieci incapaci di parlare italiano. Se una parte di quel ritardo è stato recuperato, lo si deve alla scuola, che adesso va molto meglio di cinquant´anni fa».

Oggi quasi tutti i nostri connazionali dichiarano di saper parlare italiano. Gli si può credere?
«Sì e no. Sì, nel senso che fonetica, grammatica fondamentale, vocabolario essenziale dell´italiano sono molto diffusi. L´italiano in cui generalmente ci si esprime non sarà quello di Benedetto Croce o di Luigi Einaudi, ma sempre italiano è. Resta il fatto che soltanto metà della popolazione ha preso la licenza media dell´obbligo o titoli più elevati. L´altra metà, a dir poco, manca degli strumenti che le consentono di controllare il proprio modo di parlare italiano».

Questa è la diagnosi. Parliamo ora delle prospettive.
«Dobbiamo persuaderci tutti - destra e sinistra - che occorre investire molto di più in ricerca, formazione e scuola. Paesi con un reddito nettamente inferiore al nostro - il Portogallo, per esempio - si stanno letteralmente svenando per sostenere l´istruzione. Da noi, invece, non soltanto la Finanziaria ha decurtato gli investimenti per la ricerca, ma si annunziano altre diminuzioni per il prossimo avvenire. Il ministro della Pubblica Istruzione si preoccupa di ridurre il numero degli insegnanti. Tagli invece che investimenti: ciò avrà certo conseguenze gravi».

Conseguenze di che tipo, professore?
«La risposta l´hanno data tante volte economisti come Adam Smith, Carlo Cattaneo e, per stare all´oggi, Paolo Sylos Labini. Userò proprio le parole di Cattaneo: "Le idee sono a capo della produzione". A chi non vuole investire in istruzione e cultura suggerisco di dare uno sguardo alle statistiche sui brevetti nei vari paesi. Noi ne produciamo 750 all´anno contro i 125.000 del Giappone, gli 80.000 degli Stati Uniti, le decine di migliaia prodotti da paesi europei di pari importanza demografica rispetto al nostro. Perfino la Spagna, nostra solita consolazione in simili raffronti culturali, con una popolazione che è circa la metà di quella italiana, produce il doppio dei nostri brevetti».

Posso introdurre una parentesi? Dopo una lunga eclisse, si ripropone oggi la questione dell´impegno degli intellettuali, della loro partecipazione alla vita pubblica in forma critica, protestataria. Lei ritiene utile una simile partecipazione?
«Ho cominciato a studiare leggendo i libri di Croce. Considero perciò gli interessi civili e politici parte della vita di ognuno. Non esclusi - mi consenta - gli intellettuali».

Certo che le consento. Ma spostiamoci verso il centro dei suoi studi. Partirei da una "storica" provocazione del grande linguista Ferdinand de Saussure, uno dei suoi maestri: il linguaggio è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i linguisti. Lei condivide?
«In pieno. Sarebbe follia considerare la lingua un fatto che riguarda soltanto gli scrittori. Riguarda tutto e tutti. Occorre naturalmente che, in materia di lingua, tutti siano liberi di esprimersi a loro giudizio, con il solo vincolo di farsi capire».

Ha senso sottolineare una cosa così ovvia?
«Sì, purtroppo ha senso. Un gruppo di parlamentari di An e di Forza Italia ha presentato in Senato un disegno di legge assai preoccupante. Si vorrebbe assegnare a un consiglio nazionale della lingua, presieduto dal premier, il compito di redigere una grammatica e un vocabolario dell´"uso", prescrivendo quali sono le parole nuove che si possono usare a termine di legge. Va riconosciuto che neppure l´Accademia d´Italia sotto il fascismo era arrivata a tanto. Mi auguro che i "boni viri" del Senato ci ripensino».

La tivù ci parla in casa. Noi parliamo come lei?
«Direi proprio di no. Per fortuna. Parliamo in modo ancora più vario di come parla la televisione».

Ma la televisione qualche merito l´ha avuto.
«Certo. Ma sulla scorta di un cattivo rapporto degli italiani con la carta stampata, giornali e libri».

In un suo libro di ricordi, uscito quattro anni fa, c´è un capitolo che mi colpì. S´intitola: Totò, Rodari e il professor De Mauris. Uno scrittore per l´infanzia, Gianni Rodari, e soprattutto un attore, Totò, vengono presentati come rinnovatori della nostra lingua. Totò era un linguista?
«In un certo senso sì. Ha lottato contro l´aulicità, la tromboneria, la polverosità accademica della nostra lingua. E´ merito suo se oggi nessuno (salvo che per scherzo) può permettersi di dire "è d´uopo", "eziandio", "a prescindere" o "quisquilie"».

Parliamo di attualità politica. Esiste, secondo lei, una lingua padana? E´ pensabile un "corpus juris" redatto, poniamo, nel dialetto della Val Brembana?
«No. Non è pensabile. E del resto Bossi e i leghisti parlano un italiano passabile. Non mi pare che Mastella o Di Pietro siano oratori più forbiti. In Italia - non sembri troppo ovvio - un´alternativa all´italiano non c´è. E non ci sarà a breve scadenza».

Una nota dolente: la burocrazia. Riuscirà mai la burocrazia a rivolgersi al pubblico, cioè alle sue vittime, in un italiano corrente e corretto, avendo ciascun funzionario a portata di mano il suo Grande Dizionario dell´uso (sei volumi, Utet 1997)?
«La battaglia contro l´italiano del 740 è in corso da tempo, facendo registrare qualche successo. Il progetto del "codice di stile" di Sabino Cassese, ministro della Funzione Pubblica nel governo Ciampi, è stato sviluppato dai ministri che gli sono subentrati, Urbani, Frattini, Bassanini. Ora quel progetto è ripreso di nuovo da Frattini. Forse non è il caso di disperare».

A volte abbiamo l´impressione di parlare e di sentir parlare una lingua selvaggia, improvvisata, simile a quella dei messaggini telefonici. Abbiamo perso, dunque, in quanto parlanti, ogni radice tradizionale? L´italiano fondamentale, il "basic Italian", è una lingua moderna?
«Tutt´altro. In italiano, quasi il novanta per cento del vocabolario fondamentale era in uso ai tempi di Dante. Delle parole da lui usate nella Divina Commedia, otto su dieci sono arrivate vive e vegete fino a noi. Quando riusciamo a esprimerci in modo lineare e chiaro, parliamo ancora e sempre la lingua di Dante».

Che cosa si può fare per diffondere l´italiano anche in quelle sacche della popolazione - le quali pure esistono - che lo ignorano o lo adoperano male?
«Gaetano Salvemini o Antonio Gramsci l´hanno detto per vari decenni: portare libri e biblioteche in aree sociali tagliate fuori dalla vita moderna. I corsi di dizione non servono. Serve per noi tutti più conoscenza e cultura. Ma intanto abbiamo imparato ad adoperare l´italiano, almeno per l´essenziale. Il resto - direbbe un libro ancora sconosciuto ai più, il Vangelo - ci verrà dato appresso».


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Date: 25 Mar, 2002 on 19:12
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