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MORTO A 102 ANNI IL TEORICO DELL´ERMENEUTICA
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1. MORTO A 102 ANNI IL TEORICO DELL´ERMENEUTICA
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da LA Stampa
Venerdì, 15 Marzo 2002

MORTO A 102 ANNI IL TEORICO DELL´ERMENEUTICA: UMANIZZÒ IL SUO MAESTRO HEIDEGGER, ALLA DITTATURA DELLA TECNICA OPPOSE IL VALORE DEL DIALOGO SOCIALE
GADAMER verità contro metodo

HANS-GEORG Gadamer, che è morto ieri nella sua casa di Heidelberg a 102 anni - un´età a cui era arrivato vitalissimo, produttivo e lucido fino all´ultimo - è stato il filosofo che non solo, come dice Habermas, ha «urbanizzato la provincia heideggeriana». Molto di più: ha interpretato e sviluppato il pensiero del suo maestro con l´effetto di umanizzarlo. Uno degli scritti di Heidegger che Gadamer ha sempre citato come decisivi per la formazione della propria filosofia è la conferenza del 1936 su «L´origine dell´opera d´arte». In essa, Heidegger propone la celebre tesi secondo cui l´arte apre un mondo, fonda un´epoca, inaugura una cultura, perché l´essere stesso delle cose non si dà alla nostra esperienza se non in un linguaggio, e l´arte per l´appunto innova radicalmente il linguaggio. Tutto bene, ma in fondo è difficile capire che cosa questo davvero significhi per l´esperienza di noi lettori e spettatori delle opere d´arte. Gadamer legge la dottrina nel senso di mostrare che una esperienza estetica è tale solo quando è «vera» esperienza, cioè quando ci cambia: la lettura di un grande romanzo, l´ascolto appassionato di una grande composizione musicale sono come l´incontro con qualcosa o qualcuno che non si lascia solo collocare nel mondo accanto alle altre cose, ma che si presenta come una visione globale del mondo con cui dobbiamo fare i conti. Anche la famosa dottrina heideggeriana dell´essere-per-la-morte, che dà sempre tanto da fare agli interpreti, diventa in Gadamer una teoria della finitezza e storicità dell´esistenza: il linguaggio che parliamo è una eredità storica densa di contenuti specifici, non è la grammatica e sintassi astratta di una ragione umana sempre uguale. Assumere coscientemente la propria mortalità significa sapere che stiamo dentro a questo flusso di messaggi linguistici, e che non c´è verità che si possa conoscere al di fuori del dialogo, sempre rinnovato proprio dal trascorrere delle generazioni mortali, con questi messaggi. E´ proprio per questa attenzione alla storicità e finitezza dell´esistenza che Gadamer ha potuto essere un filosofo «popolare», comprensibile alla gente comune perché radicato nella concretezza del mondo della comunicazione generalizzata. La sua filosofia si chiama ermeneutica perché intende l´esistenza come interpretazione: l'esperienza non incontra il mondo rispecchiandolo neutralmente, ma leggendolo (ossia interpretandolo) alla luce di attese, progetti, paure, bisogni. Anche qui, è fin troppo facile capire che, come diceva Platone, non troveremmo mai la verità se non sapessimo (già) che cos´è quel che cerchiamo. Come nella lettura di un libro, anche la lettura del mondo è sempre mossa da un certo interesse: per chi è l´assassino, nei gialli; ma anche, più generalmente, per ciò che ci aspettavamo dalla lettura quando abbiamo cominciato. Naturalmente, succede fortunatamente spesso che troviamo ciò che non ci aspettavamo; ma anche questo è possibile solo sulla base di una certa aspettativa, che in questo caso viene radicalmente messa in crisi - l´esperienza, come pensava Hegel, ci urta e ci cambia. Per quanto scandaloso tutto ciò possa apparire a chi pensa ancora che noi prima incontriamo il mondo e solo dopo lo nominiamo e ordiniamo, sembra che sia proprio questo che ci accade sempre più evidentemente nella società tardo-moderna della comunicazione: la nostra vita è un intrecciarsi di messaggi, un gioco di interpretazioni, in cui la verità si costruisce nell´ascolto, nella discussione, nel consenso. Certo c´è una realtà; ma noi ne sappiamo con certezza solo ciò che ne «verifichiamo»; e verificare significa usare un linguaggio e un metodo, su cui dobbiamo già essere d´accordo con i nostri interlocutori. Queste concezioni, Gadamer le ha elaborate anzitutto in dialogo con il suo maestro Heidegger, e attraverso una riflessione costante sulla grande tradizione filosofica, a cominciare da Platone e Aristotele. Ciò che fin da principio caratterizzò la sua personale interpretazione del grande insegnamento heideggeriano è proprio la profonda conoscenza della tradizione classica e la fedeltà a quel lascito. Così mentre Heidegger pensa, in modo molto radicale, che già la concezione platonica della verità (come darsi obiettivo e visibile agli occhi della mente di idee, strutture, modelli stabili delle cose) sia l´inizio di ciò che lui chiama l´oblio dell´essere, cioè dell´identificazione dell´essere con l´oggettività (per cui anche la nostra esistenza dovrebbe essere sempre più oggettiva: razionalizzazione del lavoro, società totalitarie, manipolazione dell´uomo), Gadamer ritiene che l´errore sia cominciato solo con lo scientismo moderno, che ha considerato le scienze sperimentali matematiche come l´unica sede del vero, riducendo l´esperienza estetica, ma anche quella religiosa e le «scienze morali» in genere, a puro affare di sentimento e di sensibilità soggettive. Il risultato è lo stesso a cui pensa Heidegger - una società che si tecnicizza al punto di non far più posto alla libertà e imprevedibilità dell´esistenza. Ma cambia molto l´atteggiamento nei confronti del´eredità umanistica, e forse anche la concezione di un possibile riscatto. Per la radicalità di Heidegger, un rinnovamento della nostra civiltà è qualcosa che non dipende (quasi affatto) da noi, ma dall´essere stesso. «Solo un Dio ci può salvare», come egli dice nell´ultima famosa intervista allo Spiegel. Per Gadamer, la tradizione occidentale è invece ancora ricca di possibilità emancipative, che si tratta di ricuperare opponendo all´obiettivismo tecno-scientifico una concezione della verità come dialogo sociale. Così nella disputa su ciò che le scienze possono o non possono fare, è decisivo ricordare che la ragione umana è logos, cioè discorso; e che razionale è ciò che si lascia dire entro il quadro del logos condiviso. In concreto: gli scienziati stiano (anche) a sentire ciò che la coscienza collettiva ha da dire sulle applicazioni dei loro saperi e sulla direzione da dare alle loro ricerche. Non è un invito al conformismo; è l´idea che si dà moralità e razionalità anzitutto nel rispetto degli altri e della loro libertà. Magari anche a scapito dello «sviluppo» a tutti i costi. Questo forse non è il Platone della mistica salita dell´anima alle idee, ma quello del dialogo, del simposio; è, soprattutto, l´Aristotele della filosofia pratica, che Gadamer ha contribuito in modo determinante a rivalutare nella cultura contemporanea. Il titolo della sua opera maggiore, Verità e metodo, riassume in fondo tutto questo. C´è verità anche là dove non domina il metodo scientifico; anzi, forse proprio là dove non c´è anzitutto il metodo, il quale vale e funziona solo se lo si usa stando nella verità, nel logos fatto del linguaggio che storicamente ci troviamo a parlare. Parlando della morte, ricordo che Gadamer una volta mi disse: l´uomo è un essere che talvolta è sveglio, talvolta dorme. La morte non è molto più che un sonno prolungato; che dunque non si deve temere più di tanto, finché va avanti, anche senza di noi, quel dialogo infinito che (come dice un verso di Hölderlin) costituisce l´essenza stessa della nostra umanità.

Gianni Vattimo


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Date: 15 Mar, 2002 on 07:31
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