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Non sparate su Letizia per motivi sbagliati
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1. Non sparate su Letizia per motivi sbagliati
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da La Repubblica
14 gennaio 2002

Non sparate su Letizia per motivi sbagliati

di Mario Pirani

Lo stop al disegno di legge sulla scuola non è stato causato dalla troppa «fretta» di Letizia Moratti di partorire la sua riforma, secondo una versione di comodo accolta dai giornali, ma dal fatto che, di fronte alle critiche che le erano state mosse, ella aveva rimesso mano ad alcuni punti che modificavano in meglio l'impianto iniziale. In particolare aveva proposto qualcosa che i post dc di varia osservanza — siano collocati nel Ccd o fra i Popolari — vivono come un'offesa alla sacralità della famiglia e soprattutto alle competenze delle suore dei tantissimi asili infantili privati: l'inizio delle elementari a cinque anni e non a sei. Un anticipo che, peraltro, corrisponde alle capacità di apprendimento dei bambini del Duemila. Non c'era, dunque, tanto da approfondire. Anche perché lady Letizia, ricordandosi forse di un punto del vecchio manifesto elettorale di Romano Prodi (il quale, pur non dando pienamente retta alle suorine, era ed è tuttavia dotato della prudenza del buon cattolico) in cui si suggeriva una via di mezzo, e cioè l'iscrizione a scuola a cinque anni e mezzo, se ne era venuta fuori con un analogo compromesso.
Naturalmente, per comprendere l'importanza di questo anno (o mezzo anno) guadagnato bisogna correlarlo a tutto l'iter scolastico, fino alla licenza superiore. E, poiché si vuole giustamente che esso si concluda a 18 anni, come auspicano le direttive europee, anche per rendere omogeneo in tutta la Ue l'avvio al lavoro, quella partenza anticipata ha permesso alla Moratti di sanare un altro dei punti maggiormente criticati della bozza iniziale, l'accorciamento di un anno del liceo, riportandolo di nuovo da 4 a 5 anni.
Altro inciampo in Consiglio dei ministri, è risultata la protesta della Lega, insoddisfatta per il fatto che la devoluzione alle Regioni si limiterebbe sostanzialmente alle scuole professionali. Non dovrebbe sfuggire ad alcuno la grande rilevanza culturale e politica della questione. Il federalismo nella versione rivendicata da Bossi scardinerebbe, infatti, l'unità culturale della scuola italiana, introducendo programmi differenziati a seconda degli orientamenti storico politici delle maggioranze locali, della propensione a privilegiare i dialetti come fossero lingue ed altre rivendicazioni tipiche dell'estremismo leghista (insegnanti locali, ecc.).
Per tutto questo, almeno sui punti su cui si è verificato lo scontro, non possiamo che essere dalla parte del ministro, anche se non siamo affatto certi che possa resistere fino in fondo. Col che non voglio affatto dire che la sua riforma soddisfi le attese degli insegnanti e degli studenti molto di più di quanto avvenne con le riforme BerlinguerDe Mauro. Anzi, la deriva aziendalprivatistica è ancor più inaccettabile per chi voglia tener fermi i princìpi basilari della scuola pubblica. Basti citare l'introduzione dei consigli di amministrazione in luogo dei consigli d'istituto che dovrebbe sancire la trasformazione delle scuole, da istituzione della Repubblica, in microaziende. Nei CdA il peso dei membri eletti scende drasticamente mentre sale quello degli esperti nominati di diritto. Il preside, ora ribattezzato manager con la denominazione di «dirigente scolastico», ha il potere di un amministratore delegato, presiede il consiglio, lo convoca a suo piacimento (solo con 2/3 dei voti è possibile un'auto convocazione) e può utilizzarlo come una sua staff.
Il CdA ha, comunque, quasi tutti i poteri, da quelli che riguardano l'indirizzo generale alla gestione quotidiana. Il Collegio dei docenti, per contro, non delibera più nulla, elabora il piano dell'offerta formativa che dovrà, però, essere approvato dal CdA ma perde, comunque, la sua sovranità in merito alle scelte didattiche e organizzative. Gli restano vaghe competenze di monitoraggio e coordinamento, prive di potere deliberante; gli è sottratta ogni capacità di governo generale dell'attività scolastica anche attraverso la scomposizione del Collegio in cosiddetti dipartimenti disciplinari. Comunque non può autoconvocarsi ed è presieduto dal «dirigente» che stabilisce l'odg. Infine non dovrebbero esser più i singoli insegnanti a valutare gli alunni e, neppure, il consiglio di classe, che viene abolito. La valutazione sarebbe determinata in forma collegiale (non meglio precisata) «periodicamente e alla fine dell'anno scolastico, secondo modalità organizzative coerenti con i percorsi formativi degli alunni stessi, indicate dal regolamento d'istituto, deliberato dal Consiglio di Amministrazione».
A questo punto cosa resterebbe della libertà d'insegnamento e dell'autonomia dei docenti?


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Date: 14 Jan, 2002 on 17:35
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