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«Razzismo a Harvard», insorgono i docenti neri
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1. «Razzismo a Harvard», insorgono i docenti neri
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da Il Corriere della Sera
Sabato, 5 Gennaio 2002

La rivolta esplosa dopo le critiche a un docente «imputato» di avere inciso un disco rap e di fare troppa politica

«Razzismo a Harvard», insorgono i docenti neri

Sotto accusa il presidente dell’università. I professori di colore: ci trasferiamo in massa a Princeton


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK - «Harvard razzista e ostile alle minoranze». Ottanta anni esatti dopo l’istituzione delle famigerate quote volute nel 1922 dall’allora rettore Abbott Lawrence Lowell per limitare l’accesso degli studenti ebrei ad un massimo del 10 per cento, la più antica e prestigiosa università americana torna ad essere accusata di attuare pratiche elitarie e discriminatorie.
L’attacco contro la torre d’avorio dell’accademia americana questa volta non viene dall’esterno ma è capeggiato da un gruppo di suoi illustri docenti afro-americani che accusano il presidente bianco dell’ateneo Lawrence Summers, ex ministro del tesoro di Bill Clinton, di razzismo. Dopo giorni di roventi polemiche ed insulti reciproci sulle prime pagine dei giornali, soltanto un compromesso ha impedito all’ultimo minuto che l’intera facoltà di «studi afro-americani» abbandonasse Harvard per la rivale Princeton, cosa che avevano minacciato più volte e che, forse, non è ancora esclusa del tutto.
Il braccio di ferro è scoppiato dopo un colloquio privato tra Summers - nominato alla guida della prestigiosa università appena sei mesi fa - e il professor Cornel West, il «barone» nero e superstar del programma di «black studies, considerato un’autorità mondiale negli studi sul conflitto di razza in America. Durante l’accalorato scambio di idee, Summers avrebbe inveito contro l’illustre docente - autore di vari bestseller tra cui «Race Matters» - accusandolo brutalmente di essere più interessato a «fare politica invece che cultura».
Oltre a rimproverargli di aver fatto propaganda per l’ex campione di basket Bill Bradley e per il leader nero Al Sharpton quando entrambi erano in corsa per la Casa Bianca, Summers gli rinfaccia di aver inciso uno «scandaloso» disco rap. E di aver gonfiato i voti, inflazionando i 30 e lode riservati, secondo l’accusa,soprattutto ai suoi studenti di colore.
Apriti cielo. «Insultare un icona del suo calibro è imperdonabile: Summers è una minaccia per la libertà accademica», hanno tuonato i colleghi di West, minacciando di abbandonare la popolare - e redditizia - facoltà che fattura da 40 milioni di dollari (oltre 41 milioni di euro) annui di budget.
Ma ciò che li ha fatti indignare di più, assicurano, è l’atteggiamento ambiguo, misto ad avversione, di Summers rispetto alla «affirmative action», la controversa politica delle quote riservate agli studenti afro-americani (anche quelli con medie inferiori ai bianchi) ideata per colmare decenni di esclusione e discriminazione.
Nella mischia si sono inseriti anche i leader politici neri. Dal reverendo Jesse Jackson, che ha attaccato «l’incertezza di Summers davanti ad un caposaldo dei diritti civili quale l’affirmative action» a Al Sharpton, pronto a far causa al rettore per «aver interferito nella mia scalata presidenziale». Messo contro il muro, alla fine Summers è stato costretto a chiedere pubblicamente scusa, promettendo di «difendere lo storico impegno di Harvard nei confronti della diversità razziale».
Ma se la polemica è rientrata, il dibattito finisce per riaccendere antiche ferite mai del tutto richiuse. Nel Paese si torna a parlare dei tempi, neppure così lontani, in cui i giovani con cognomi anglosassoni quali Thistlethwaite e Crawford-Poole venivano subito immatricolati, mentre gli ebrei Cohen e Rosenblum - ma anche gli italiani Cimino e gli irlandesi Kennedy - restavano regolarmente fuori dalla porta.
La storia dell’emancipazione socio-razziale di Harvard non è diversa da quella degli altri templi della Ivy League, il circuito ristretto di una mezza dozzina di università considerate «le migliori del Paese» - ed altrettanto esclusive, elitarie ed un tempo impenetrabili per le minoranze - che da oltre un secolo formano le classi dirigenti degli Stati Uniti.
Oggi, puntano il dito molti, la situazione si è ribaltata. Al punto che, secondo un documento interno «segreto» di Harvard pubblicato da alcuni giornali, per accedere alla prestigiosa università di Boston ai candidati afro-americani è richiesta una media di voti di ben 150 punti inferiore a quella dei bianchi.
Razzismo alla rovescia? «No - replicano gli addetti ai lavori - solo un espediente per bilanciare il fatto che il 20 per cento delle immatricolazioni di Harvard oggi è riservato ai rampolli, bravi o somari, degli ex laureati. Soprattutto quelli più larghi di portafoglio».
Qualcosa deve pur cambiare, insomma, perché tutto rimanga come prima. Secondo l’ultimo studio, realizzato proprio da Harvard a luglio, la segregazione delle scuole americane è tornata a livelli pre-anni 60, ai danni soprattutto degli ispanici, il 75 per cento dei quali oggi frequenta scuole per soli studenti «latinos». Nel 1954 una sentenza della Corte Suprema bandì ufficialmente la segregazione nelle scuole ma si è dovuti passare attraverso le sanguinose marce del movimento per i diritti civili, negli anni Sessanta, prima di vederle, finalmente, messe in pratica. La polemica che ha travolto Harvard è giudicata da molti il frutto della «nuova era» conservatrice di George W. Bush. «Un’era - precisa il sociologo David Raindorf - decisa a spazzare via valori giudicati troppo di sinistra e quindi obsoleti, a vantaggio di privatizzazione e profitto».
La facoltà di studi afro-americani era stata creata dal predecessore di Summers, Neil Rudenstine, che oltre a garantirle gli speciali fondi presidenziali, aveva elargito a West il titolo di «University Professor»: una nomina prestigiosissima che solo quattordici degli oltre duemila docenti di Harvard possono vantare.

Alessandra Farkas


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Date: 05 Jan, 2002 on 10:56
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