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Società della conoscenza o società del gioco?
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1. Società della conoscenza o società del gioco?
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da La Stampa
Martedì, 11 Dicembre 2001

NELLA SOVRABBONDANZA INGESTIBILE DELLE INFORMAZIONI, UNA VIA D’USCITA RISCHIOSA MA SENZA ALTERNATIVE

Società della conoscenza o società del gioco?

di Gianni Vattimo

Società della conoscenza o società del gioco? Mi rendo conto del carattere, consapevolmente, provocatorio del titolo.

Tuttavia ritengo che esprima bene la situazione delle nostre società avanzate in cui la quantità di informazione disponibile e utilizzabile per la produzione di cose e di servizi è ormai così sterminata da doversi necessariamente riferire alle macchine, alle memorie artificiali, come solo possibile «soggetto» capace di contenerla e di «dominarla».

L'Unione Europea parla oggi di una «società della conoscenza» come orizzonte direttivo delle sue politiche comunitarie di istruzione, divulgazione, educazione degli adulti: anche e soprattutto con il proposito di vincere le sfide del mercato globale, che richiede una capacità diffusa di utilizzare i nuovi mezzi prodotti dalle tecnologie. Il che significa: quando parliamo di società della conoscenza parliamo in realtà di una società del sapere tecnologico diffuso e perciò più ricca di possibilità «produttive».

Se si tengono presenti queste osservazioni, nasce per lo meno un dubbio circa il significato da attribuire al termine «società della conoscenza». Il conoscere è sempre stato nella nostra tradizione sinonimo della attività più degna e gratificante dell'uomo. Tuttavia almeno a partire da Kant la filosofia ha colto e teorizzato la differenza tra conoscere e pensare.

A questa differenza si rifà evidentemente anche Heidegger quando pronuncia la scandalosa affermazione secondo cui «la scienza non pensa».

In Kant il «noumeno», l'essere «pensato», è l'essere in sé del mondo del quale non possiamo sapere e conoscere nulla, giacché la nostra conoscenza, quella su cui si fonda il sapere, è limitata al fenomeno, a ciò che appare.

Le attività superiori, se vogliamo chiamarle così, della ragione umana si esercitano tutte oltre il mondo del fenomeno, a cominciare dall'uso morale della ragione, che è caratterizzato da una capacità di iniziativa non determinata causalmente dalla catena dei fenomeni, per finire alla contemplazione estetica. Il nostro titolo si potrebbe forse riformulare, a questo punto, come: società della conoscenza o società del pensiero?

Ma se poi ci domandiamo un po' più specificamente che cosa caratterizzerebbe, in questa distinzione, il pensiero rispetto alla conoscenza, non tarderemmo a trovare ciò che ho proposto di indicare con la parola gioco, che richiama Kant, ma anche Gadamer.

In questa accezione, gioco ci permette di cogliere almeno due importanti caratteristiche del pensare in quanto non riducibile al conoscere: la libertà e il coinvolgimento emotivo. Il pensiero come gioco non è certo slegato dall'attività conoscitiva; ma vi si lega in quanto è la condivisione, già sempre data con la nostra esistenza storica, di un orizzonte entro cui l'esperienza dei fenomeni e il conoscere scientifico ci diventano possibili.

Un certo scandalo non può non sorgere quando si passi dalle (innocue?) considerazioni filosofiche su pensare e conoscere a un tentativo di trarre da esse conseguenze di tipo pratico, sociale e politico. Che cosa dovremmo insegnare a scuola? Il gioco al posto della dura disciplina dell'apprendimento di conoscenze che sono sempre più indispensabili alla nostra vita individuale e associata?

Il fatto di cui tener conto è che con la conoscenza e la diffusione di essa accade un po' ciò che accade con il concetto di «sviluppo»; al quale sempre più spesso, oggi, si associa il termine «sostenibile».

Chi cerca di tenersi «al corrente» si trova molto spesso in una condizione di saturazione; deve ricorrere a collaboratori o a «motori di ricerca» che gli forniscano una pre-selezione del materiale che alla fine cercherà di leggere direttamente. Fortunatamente (o sfortunatamente) il pubblico medio non legge e non ascolta tutto, o non si preoccupa affatto della completezza della propria informazione, ha altro da fare.

E questo diventa anche un problema per il funzionamento della democrazia. Sempre più spesso, le decisioni pubbliche implicano saperi specialistici: se c'è un referendum sul problema degli impianti nucleari, per esempio, coloro che sono chiamati a votare hanno sufficienti conoscenza di fisica per poter decidere con cognizione di causa?

Per sapere ciò di cui si tratta, gli elettori dovrebbero essere dei piccoli Leonardi da Vinci, e ovviamente non lo sono. Si può immaginare una società della conoscenza nella quale, come nel caso dello «sviluppo», si realizza progressivamente una condizione di «leonardismo» generalizzato? Ma se no, che cosa?

Qui la distinzione tra pensare e conoscere si impone in tutta la sua possibile attualità, per una inderogabile ridefinizione del significato sociale della conoscenza. Non è un caso che la società in cui matura la crisi dell'ideale dello sviluppo quantitativo della conoscenza sia anche la società dell'informatica. Un fortunato libro di Hubert Dreyfus di qualche anno fa portava come titolo What computers can't do, ciò che i computer non sanno fare.

Naturalmente, ci sono cose che i computer non sanno fare, ma dobbiamo ormai sempre più prestare attenzione a ciò che sanno fare, e servircene nel modo più efficace. Non si tratta solo, insomma, di rivendicare l'irriducibile carattere umano della vita della mente, ma di riconoscere e promuovere positivamente la possibilità di ridurre al non-umano una quantità di attività che in passato occupavano e appesantivano il lato propriamente umano della nostra vita.

Una società della conoscenza è una società in cui, come nel caso delle buone abitudini che ci fanno fare il bene senza pensarci, la conoscenza è «disponibile», nelle reti, nel sistema delle memorie artificiali, e «funziona» anche se non c'è da nessuna parte un soggetto «assoluto» capace di possedere, nel modo della concezione classica del sapere, tutte le conoscenze.
Preciso che non so bene, per ora, verso dove conduce la via che propongo di imboccare. So che comporta dei rischi, ma sono convinto (non posso dire che lo so, mi contraddirei) che non ci sono alternative. Promuovere una società della conoscenza come mondo in cui tutti sapranno domani decidere con cognizione di causa sui più svariati problemi della vita associata, che sempre più comportano il possesso di nozioni specialistiche, mi sembra una mistificazione ideologica che rivela solo l'incapacità di ripensare il concetto stesso di conoscenza.

Già oggi succede sempre più spesso che quando si tratta di decisioni che implicano il possesso di simili nozioni, noi ci affidiamo a esperti che stimiamo e di cui abbiamo fiducia per un insieme di ragioni che non hanno direttamente da fare con la valutazione (di cui non saremmo capaci) della loro competenza specifica.

È in riferimento a osservazioni come queste che diventa meno scandaloso parlare di una società del loisir e del gioco come sola possibile attuazione dell'ideale di una società della conoscenza.

Tenendo presenti i tratti essenziali del concetto di gioco: quelli della «condivisione» e della spontaneità, dunque anche del coinvolgimento affettivo. In concreto, significa che nel nostro futuro c'è un sapere che nessuno individualmente sarà in grado di possedere; e cioè che in sempre più vasti settori della vita individuale e associata dovremo «affidarci» a qualcun altro.

La forma socialmente più generale e visibile di un simile affidamento è in definitiva la democrazia politica. È vero che quando esercito il mio diritto di cittadino elettore scelgo tra programmi politici esplicitamente formulati; ma in essi non vado mai oltre un certo grado di conoscenza e di competenza.

Qualcuno dirà che in tal modo si abdica alla libertà; ma si tratta appunto di prendere sul serio le trasformazioni - che proprio la scienza e la tecnologia hanno prodotto - del concetto stesso di conoscenza, di verità, di libertà. La democrazia e la libertà politica non si realizzeranno mai come competenza scientifica universalmente diffusa, ma come possibilità per ciascuno di scegliersi gli «esperti» da cui vuol farsi guidare, e di sceglierli in base a una più complessa affinità che non è esagerato chiamare «esistenziale».

Riconoscere questo significherà cedere totalmente a una democrazia dove il carisma dei «capi», per lo più costruiti dai media e con la forza degli slogan, soppianta totalmente il dibattito razionale? Siamo consapevoli del rischio; ma anche in società meno mediatizzate della nostra la purezza razionale del dibattito politico, là dove si dava, era profondamente condizionata da appartenenze, amicizie, «affidamenti»; forse tutto ciò era solo ideologicamente mascherato, come sapeva bene Marx.

In democrazia ne siamo finalmente consapevoli, non solo negativamente in quanto siamo divenuti più scettici circa la possibilità di scegliere «razionalmente» la via vera; ma anche in quanto siamo sempre più perentoriamente chiamati a concepire e vivere l'esistenza sociale come esercizio di amicizia in cui consiste l'unica possibile essenza della stessa civiltà.


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Date: 11 Dec, 2001 on 09:00
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