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IL MERCATO DELLA CULTURA
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1. IL MERCATO DELLA CULTURA
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da LE MONDE diplomatique
Settembre 2001

IL MERCATO DELLA CULTURA
I saperi al servizio del commercio


Nell'epoca del liberismo trionfante, la vecchia contrapposizione tra una cultura guidata da alti principi e una comunicazione imbarbarita dal mercato diventa sempre meno pertinente. Eppure, la mercificazione della cultura e la sua internazionalizzazione non sono certo cominciate ieri: già alla fine della prima guerra mondiale, gli Stati uniti e l'Europa si facevano concorrenza nel settore della produzione cinematografica. E quando, molti anni dopo, alcuni paesi del terzo mondo hanno avanzato la pretesa di costruire un «ordine mondiale dell'informazione», è stato risposto loro che ci avrebbe pensato il mercato...

di ARMAND MATTELART*

«Dove finisce la cultura e dove comincia il commercio? - Sulla materia mi devo dichiarare incompetente». Questa lapidaria risposta del capo dei negoziatori per l'Area di libero scambio delle Americhe alla vigilia del vertice di Quebec City (aprile 2001) definisce da sola un progetto di società. Ovunque, la deregulation neoliberista delle reti e delle industrie della comunicazione ha fatto saltare gli ultimi chiavistelli della reificazione mercantile. Ma questo stato di cose è anche lo sbocco della storia del XX secolo e della tensione fra la filosofia cosmopolita della cultura, lontana erede dell'illuminismo e il progetto totalizzante trasmesso dagli universali della comunicazione e dai loro vettori tecnici. Scivolando dall'una all'altro, le relazioni culturali si sono trasformate in strumento delle politiche di potenza.
Una problematica moderna delle relazioni culturali comincia a configurarsi su iniziativa dei paladini della pace. Paul Otlet e Henri La Fontaine, due avvocati belgi, decidono di organizzare il primo congresso mondiale delle associazioni internazionali a Bruxelles nel 1910. A sottolineare la maturità di un movimento senza frontiere forte di circa 400 associazioni, nasce una Unione che ha una propria rivista, La Vie internationale.
Essa conia il concetto di «mondialismo» (worldism) che fa riferimento alla coscienza della «interdipendenza», per analogia con l'universo solidale delle cellule. Queste prime reti di scambi culturali sono animate dal desiderio comune di porre fine al caos della Torre di Babele. Negli Stati uniti, il filantropo e magnate dell'acciaio, Andrew Carnegie, crea la prima fondazione culturale, la Carnegie Endowment for International Peace, e fornisce il suo appoggio alla semplificazione dell'ortografia della lingua inglese. Otlet, dal canto suo, sogna di facilitare l'accesso del massimo numero di persone all'informazione grazie a un sistema complesso di biblioteche collegate a reti telegrafiche e telefoniche.
Questa visione salvifica della comunione tramite la cultura è ancora viva alla fine della prima guerra mondiale. Negli Stati uniti, le reti private (fondazioni, organizzazioni interuniversitarie, associazione dei bibliotecari, ecc.) sono le sole a farsene carico. Diffidando delle tendenze al centralismo di governo, il Congresso ha soppresso il sistema ufficiale di informazione verso l'estero attivato al momento dell'entrata in guerra. Al momento della firma dei trattati di pace, la grande stampa americana e le agenzie Associated Press e United Press International (Ap e Upi) affrontano il monopolio sulle notizie esercitato fin dal 1870 dal triumvirato delle agenzie europee (Havas, Reuter, Wolff), e tentano, invano, di dare legittimazione internazionale alla libera circolazione delle idee e delle merci.
La visione allora predominante nell'élite intellettuale, di cui si fa portavoce l'Istituto internazionale di cooperazione intellettuale creato sulla scia della Società delle Nazioni, viene riassunta in questi termini nei Colloqui di Madrid (1933): «L'avvenire della cultura, anche all'interno delle unità nazionali, è essenzialmente legato allo sviluppo dei suoi elementi universali il quale, a sua volta, dipende da una organizzazione dell'umanità come unità morale e giuridica....
È dallo scontro tra le idee scambiate fra i pensatori contemporanei che deve scaturire la verità che aiuterà il mondo a superare la crisi spirituale che sta attraversando»(1).
Ai margini dell'utopia della repubblica delle lettere e dei sapienti, il periodo fra le due guerre vede l'affermazione di un'altra concezione della cultura. Primo scontro totale che coinvolse militari e civili, la retroguardia e il fronte, la Grande Guerra ha affinato le strategie di controllo delle informazioni. L'esperienza acquisita dagli specialisti della propaganda determina nuovi modi di governare in tempo di pace.
«Fabbrica del consenso» (manufacture of consent), «gestione governativa delle opinioni» (government management of opinion): la nuova ingegneria del consenso dà la sua struttura, fin dagli anni 20, sia ai primi trattati sulla sociologia dei media e dell'opinione pubblica - ad esempio quelli di Walter Lippman o di Harold Lasswell - che alle opere dei pionieri delle pubbliche relazioni, come Edward Bernays (2). «Management» come termine rimanda al movimento generale che coinvolge l'universo aziendale all'insegna del fordismo e del taylorismo, e che riguarda sia l'organizzazione del lavoro che la gestione dei consumi tramite il marketing e la pubblicità. Con intuizione profetica, già alla fine degli anni 20 Antonio Gramsci vede nell'avanzare di queste tecniche di gestione un progetto di ristrutturazione globale delle relazioni sociali che prende il nome di «americanismo». Nel 1932 Aldous Huxley, con il romanzo distopico Mondo nuovo ci propone un abbozzo del futuro all'insegna del fordismo.
Per l'Europa, ed in particolare per la Francia, la Grande Guerra ha significato il crollo della produzione cinematografica e la perdita dei mercati esteri, a tutto vantaggio degli Stati uniti. L'industria cinematografica si trasforma in emblema della internazionalizzazione dei prodotti culturali. Tuttavia, sin dalla seconda metà del decennio, la Germania di Weimar, il Regno unito e la Francia inaugurano una politica di contingentamento nei confronti di Hollywood. «L'americanismo ci sommerge» dichiara Luigi Pirandello, premio Nobel per la letteratura nel 1934. «Credo che laggiù si sia acceso un nuovo faro di civiltà.
Il denaro che circola nel mondo è americano, e dietro quel denaro corre il mondo della vita e della cultura (3)». La «cultura di massa» ribalta l'idea di alta cultura. È un concetto che elaborano, spingendolo all'estremo, autori quali l'inglese Frank Raymond Leavis, lo spagnolo José Ortega y Gasset o i francesi Georges Duhamel e Robert Aron, autore di un pamphlet emblematico fin dal titolo, Le Cancer américain [Il Cancro americano] (1931).
Tuttavia, anche se il pensiero conservatore mette insieme senza fare distinzioni Ford e Lenin, la civiltà della catena di montaggio e il materialismo bolscevico, le diverse posizioni politiche non rendono necessariamente conto di tutte le ragioni che portano al rifiuto di abbinare cultura e economia. Allorché André Malraux, nel suo Esquisse d'une psychologie du cinéma [Abbozzo di una psicologia del cinema], afferma nel 1939 che «il cinema è un'arte, ma anche un'industria», questa formuletta si distacca decisamente dalla rappresentazione tradizionale che privilegia la figura unica del creatore e della sua opera, mostrandosi quanto mai restia alle nozze dell'estetica con la logica industriale. «Se prendete i nostri dollari potete prendere i nostri film....».
L'attuazione del piano Marshall, dopo la seconda guerra mondiale, ci dà un primo abbozzo della posizione geopolitica che è chiamata ad occupare «l'industria culturale». Un concetto che rende pienamente conto della posizione critica di numerosi artisti ed intellettuali e che è stato forgiato intorno al 1934 dai filosofi della Scuola di Francoforte, Theodor Adorno e Max Horkheimer, esuli negli Stati uniti, per fustigare il processo di serializzazione-standardizzazione della cultura di massa e il degrado del ruolo filosofico-esistenziale della cultura intesa come esperienza autentica (4). Il governo di Washington cerca di ammorbidire le politiche di protezione delle industrie cinematografiche nazionali vigenti in Europa. Nel maggio 1946, un accordo firmato dal primo ministro francese Léon Blum e dal segretario di stato americano James Byrnes, annullava le misure del decreto Herriot del 1928 sulle quote. Tuttavia, due anni dopo, la mobilitazione eccezionale della gente di spettacolo costringerà Parigi a rinegoziare tale accordo.
La creazione a Parigi, nel novembre 1946, dell'Unesco (Organizzazione delle Nazioni unite per l'educazione, la scienza e la cultura) lascia intravedere le difficoltà che si incontrano per accordarsi sul concetto e per definire una filosofia d'azione omogenea. Eppure, tutti i paesi membri sembrano condividere gli stessi sentimenti sulla «dimensione cosmica» della cultura. All'inizio, la mancata adesione dell'Unione sovietica riduce la rappresentatività dell'Organizzazione - l'Urss ne diverrà membro solo nel 1954, dopo la morte di Stalin. L'assenza di uno dei grandi ha favorito la tesi liberista nella sua versione americana, chiamata ancora dottrina del free flow of information, al momento di interpretare e di inserire nei testi la clausola «Facilitare la libera circolazione delle idee attraverso la parola e l'immagine».
Le obiezioni e le pressioni della delegazione americana ribadiscono il desiderio di strumentalizzare l'organismo per fini politici (5).
Una volta entrata nella stanza dei bottoni, l'Unione sovietica farà altrettanto.
Il concetto di cultura crea divisioni. Ne sono un esempio le disavventure di Louis Aragon, invitato a tenere una conferenza nell'ambito delle cerimonie di inaugurazione dell'Unesco. Agli organizzatori il poeta propone come titolo «La cultura e il popolo (o le genti)», che nella versione inglese diventa: «Culture and the People», e, in quella americana: «Mass culture» o «Culture of the Masses». L'espressione americana è stata tradotta in francese, e la circolare d'invito che annunciava la conferenza citava il titolo «Culture des masses». Ma le traversie di Aragon non erano ancora finite: quando nel 1947 venne pubblicato il testo della sua conferenza, l'editore dell'Unesco la intitolò «Les élites contre la culture»! Questo susseguirsi di malintesi sulle parole ispira allo scrittore questo avvertimento: «Nel programma dell'Unesco non si potrà realizzare nulla se, fin dall'inizio, non si darà prova del massimo rigore nel modo di utilizzare le parole» (6). Un'osservazione che adombra un malinteso costante tra una tradizione abituata a assimilare popular culture e mass culture e un'altra, verosimilmente prevalente all'epoca, che ritiene impensabile l'equivalenza fra le due espressioni. Secondo lo storico americano Daniel J. Boorstin, gli Stati uniti sono «Il primo popolo nella storia che abbia disposto di una cultura popolare con un'organizzazione centrale e una produzione di massa (...) Che fine ha fatto la nostra cultura popolare? Dove la ritroviamo? In un paese come il nostro, caratterizzato dall'esistenza di comunità di consumatori, e che attribuisce una straordinaria importanza al prodotto interno lordo e al tasso di crescita, la pubblicità è diventata il cuore della cultura popolare, il suo prototipo più vero»(7).
Contrassegnato da questo tropismo, anche il concetto di comunicazione è destinato a dividere. Negli anni 60 prende forma uno degli assi portanti dei programmi dell'Unesco, che svuoterà il concetto di cultura nella sua prospettiva umanista. In questo decennio, proclamato dall'Assemblea delle Nazioni unite «il decennio dello sviluppo», gli esperti innalzano i mass media a vettori delle strategie di modernizzazione. Il desiderio di innovazione, secondo le loro tesi, si diffonde necessariamente dalle nazioni adulte verso le nazioni in ritardo. L'esperienza del marketing industriale, che ha dato buona prova nell'agricoltura americana fra le due guerre mondiali, non potrebbe dare i suoi frutti anche ad altre latitudini? Secondo questa concezione evoluzionistica e contabile dello sviluppo per «stadi», una nazione inizia la sua ascesa verso la cultura salvifica della modernizzazione solo quando è in grado di soddisfare gli «standard minimi» di esposizione ai media: dieci copie di giornali, cinque radio, due televisori, due ingressi al cinema per ogni cento abitanti.
In tal modo, l'Unesco si troverà divisa fra l'ideologia tecnocratica della pianificazione sociale da una parte e, dall'altra, i paladini dell'«universale umano» e della diversità culturale.
L'inizio dell'era post-coloniale ribalta il sistema delle Nazioni unite e il rapporto di forze fra i paesi del Sud e quelli del Nord.
L'Unesco diviene l'epicentro dei dibattiti sull'ineguaglianza degli scambi e l'«imperialismo culturale». Intolleranza degli Stati uniti, arroccati a difendere una visione strettamente mercantile del free flow of information, doppiezza dell'Unione sovietica che sfrutta le legittime rivendicazioni dei paesi del Sud per meglio legittimare la chiusura del suo spazio interno, ipocrisia di numerosi paesi del Sud alla ricerca di un capro espiatorio per minimizzare il loro deficit di libertà di stampa e di libertà di espressione: la situazione appare senza via d'uscita. Gli Stati uniti, come la Gran Bretagna della signora Thatcher, si ritireranno dall'Unesco, rispettivamente nel 1985 e nel 1986, con il pretesto della «politicizzazione» dei dibattiti.
Il discorso di François Mitterrand al vertice dei paesi più industrializzati nel giugno di 1982 sarà una delle rare prese di posizione ufficiali contro l'ineguaglianza degli scambi culturali. Due anni dopo, Ronald Reagan cambia radicalmente la distribuzione dello spazio della comunicazione mondiale, aprendo sistemi e reti alla concorrenza. Inaugura un ciclo, dai negoziati del Gatt nel 1986 al progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Ami) nel 1998, che vedrà aumentare sempre più le pressioni per la liberalizzazione del «mercato della cultura».

note:

* Professore di Scienze dell'informazione e della comunicazione all'Università Parigi-VIII; autore in particolare di Histoire de l'utopie planétaire (1999) e Histoire de la société de l'information (2001), pubblicate entrambe da La Découverte, Parigi.

(1) Società delle Nazioni, «Coopération intellectuelle: Discussion générale», Journal officiel, supplément spécial, Ginevra 1933.
(2) Vedi in particolare Walter Lippmann, Public Opinion, Allen & Unwin, Londra, 1922; Harold Lasswell, Propoganda Technique in the World War, Knopf, New York, 1927; Edward Bernays, Crystallizing Public Opinion, New York, 1923.
(3) Luigi Pirandello, intervista con Corrado Alvaro, L'Italia letteraria, 14 aprile 1929.
(4) Theodor Wisengrund Adorno e Max Horkheimer, «La produzione industriale dei beni culturali», in La Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, 1966.
(5) Tristan Mattelart, Le Cheval de Troie audiovisuel. Le rideau de fer à l'épreuve des radios et télévisions transfrontières, Presses universitaires de Grenoble, 1995.
(6) Louis Aragon, «Les élites contre la culture», in Les Conférences de l'Unesco, Fontaine, Parigi, 1947.
(7) Daniel Boorstin, «The Rhetoric of Democracy», Advertising Age, 19 aprile, 1976.
(Traduzione di R.I.)


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Date: 24 Oct, 2001 on 08:18
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