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MORTE E TABU'
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da La Repubblica
Martedì, 25 Settembre 2001

MORTE E TABU'
Il lutto nel XXI secolo dopo Manhattan

SIMONETTA FIORI

"L'Apocalisse di New York, per il suo carattere spettacolare, può apparire come un presagio o una rivelazione", dice Michel Vovelle, lo storico che ha firmato pagine fondamentali sui modi in cui il lutto viene elaborato nel mondo occidentale. Dal trionfo della morte cristiana ai sontuosi cerimoniali della morte barocca, dalla morte borghese all'anonima morte in ospedale d'età contemporanea, il suo celebre volume La morte e l'Occidente (riedito nel 1994 da Laterza) non tralascia alcun aspetto del fenomeno, inclusi mascheramenti, elusioni e tabù ma anche creazioni e comportamenti magici, analizzati con una strumentazione molteplice e affascinante. Su morte e utopia lo studioso interverrà venerdì a Torino nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione Fabretti (vedi box qui affianco). Classe 1933, Vovelle è stato a lungo titolare della cattedra di Storia della Rivoluzione Francese all'Università di Parigi 1 (tra la Sorbonne e il Pantheon). Per dieci anni ha diretto l'Institut d'Histoire de la Révolution française: allo stesso tema sono dedicati innumerevoli suoi saggi, tra cui La Francia Rivoluzionaria, Breve storia della Rivoluzione francese, La mentalità rivoluzionaria, L'uomo dell'Illuminismo (pubblicati in Italia da Laterza). Dalla sua casa di Aix en Provence, lo studioso analizza la Grande Paura nel XXI secolo, il devastante impatto con il lutto segnato dalla strage di Manhattan. Un evento - a suo giudizio - dalla forte carica profetica e rivelatrice. "Non saranno rimasti sorpresi", sostiene, "tutti coloro che hanno letto Eric J. Hobsbawm e le sue analisi tutt'altro che compiaciute sulla crudeltà del feroce XX secolo: nell'abbozzare prospettive future, lo studioso inglese paventava episodi analoghi a quelli newyorkesi. Ma il "complesso di Hiroshima", ossia la consapevolezza che lo sterminio globale rientra nel regno del possibile, s'incontra nelle pagine dei dotti, ma poco o nulla nelle preoccupazioni di quello che viene chiamato l'uomo della strada. Se ci domandiamo come l'umanità abbia convissuto per mezzo secolo con la spaventosa minaccia di un'Apocalisse, dobbiamo giocoforza rispondere che s'è trattato d'una convivenza non drammatica. Fino all'ultimo, è prevalsa la convinzione che un avvenimento di tali proporzioni non poteva ripetersi". Si può dire che la strage di New York segni il prepotente ingresso del lutto collettivo nella scena del XXI secolo? "A me pare che questa effettiva Apocalisse riveli la vanità e l'impostura di un certo numero di idee invalse negli ultimi decenni e divenute slogans. Mi riferisco intanto alla "fine della storia" attraverso l'esaurimento della lotta di classe e delle rivoluzioni. Crolla anche l'utopia d'un progresso regolato dal gioco dei profitti. E in ultimo viene meno il mito d'una sorta di "bolla protetta" delle società liberali di fronte a un universo di barbarie. Lo scandaloso slogan "morte zero" - gridato da alcuni strateghi che si preoccupano soltanto delle morti americane, poiché le altre hanno poca importanza - ha ricevuto una spettacolare smentita. Bisogna concludere che questo evento emblematico dia il tono di quel che sarà il XXI secolo? Il futuro potrà dipendere dalla presa di coscienza collettiva e dalle politiche che saranno adottate". Questo velo luttuoso che avvolge New York - e con lei tutto l'Occidente - è in stridente contrasto con una tendenza fortemente diffusa nelle nostre società: la rimozione della morte, il tentativo continuo e quasi parossistico di esorcizzarla. "Già vent'anni fa, quando pubblicai il mio lavoro su La morte e l'Occidente, e ancor di più l'anno scorso nella nuova messa a punto per l'edizione francese, sono rimasto colpito dalla contraddizione dialettica tra il rafforzamento - da un lato - del tabù sulla morte di cui avevamo preso coscienza negli anni Cinquanta e - dall'altro - l'esplosione emotiva del lutto in occasione di episodi di portata limitata, come ad esempio la morte di personalità popolari. Una sensibilità duplice e contraddittoria caratterizza la nostra era: da una parte una sorta di diffusa mitridatizzazione rispetto al quotidiano spettacolo della crudeltà del mondo - mi riferisco al bilancio giornaliero dei morti dell'Intifada o alle stragi del sabato sera; dall'altra, le fiammate di emozione collettiva quando la morte - se posso usare questa espressione - non fa più la sua parte, non rimane cioè entro schemi prevedibili, ma ritorna a fare scandalo rimettendo in dubbio tutte le certezze alle quali si attacca la nostra inquieta società liberale". Del secolo appena trascorso, in La morte e l'Occidente, lei rimarca anche un'altra duplicità paradossale: da un lato la vittoria sulla morte grazie agli straordinari progressi scientifici, dall'altro il gusto della morte tragicamente coltivato dalle ideologie e dalle guerre. "La fine del Novecento effettivamente ha visto accentuarsi il contrasto tra le conquiste della medicina nella lotta contro la malattia e quello che si potrebbe definire "il ritorno dei morti" nell'immaginario collettivo. Si possono trovare a questo proposito diverse spiegazioni, naturalmente soltanto a titolo di ipotesi. Una potrebbe essere la presa di coscienza dei limiti del progresso scientifico. Un'altra, la scoperta di pericoli sconosciuti, come l'Aids, la mucca pazza, il sangue contaminato.... Un'altra ancora, la perdita di una prospettiva consolatoria che pure era presente nelle ideologie condannate al tramonto. Questo però non spiega esaustivamente "il ritorno dei morti". Di certo c'è che l'elaborazione del lutto - per riprendere un'espressione contestata ma ancora valida di Freud - è divenuta un'avventura individuale e collettiva assai più pesante. Si può essere colpiti, alla fine del Novecento, dal ricorrere della parola "repentance" - tra il pentimento e il ricordo doloroso - applicata alla Shoah o ad altri avvenimenti tragici del Novecento: come se una sorta di senso di colpa, o nozione di peccato, avvolgesse la collettività". Il XXI secolo s'annuncia con una variante: la violenza omicida si coniuga con quella suicida, il corpo usato come una bomba micidiale, la morte inflitta e la morte cercata nella speranza di una santificazione esterna. Il segno d'una svolta? "Sarebbe facile rispondere a questa domanda invocando gli argomenti usati da alcuni opinionisti. Il suicidio come scelta di martirio viene solitamente interpretato come una caratteristica del fanatismo islamico contemporaneo. Il riferimento storico ai kamikaze giapponesi dell'ultima guerra sembrerebbe avvalorare queste tesi, che ricorrono al concetto di eredità delle civiltà e degli atteggiamenti religiosi dinanzi alla morte e all'aldilà. La cristianità ha conosciuto i suoi martiri e anche i suoi massacri, ma non la sistematica associazione dei due. Tuttavia sarebbe imprudente considerare tali comportamenti come una specificità del fanatismo islamico integralista. Il principale imputato degli attentati terroristici americani (Bin Laden, ndr) pare abbia definito la pratica del Boeing suicida come "l'arma nucleare dei poveri". E ci sono oggi molti poveri armati di pietra in mancanza del Boeing". Lei ha dedicato pagine significative al modo in cui è vissuta la morte in America. Il suo tabù passa attraverso la mercificazione, il business dello spettacolo funerario. Oggi assistiamo a un curioso fenomeno, sempre in riferimento alla strage di Manhattan: la morte è stata rigorosamente celata, rarissime le immagini dei cadaveri. Più che di dead, i famigliari delle vittime preferiscono parlare di missing. "Non escluderei affatto che i cadaveri si siano davvero polverizzati in quel conglomerato vetrificato di catrame e acciaio: senza speranza mi appare la sproporzione tra il numero dei morti trovati e quello degli scomparsi. Ne deriva una duplice tentazione contraddittoria: da una parte fare quel che s'è fatto a Cernobyl, dove la centrale distrutta fu trasformata in un impressionante sarcofago - ossia fare piazza pulita e ricostruire al suono delle campane di Wall Street; dall'altra elaborare un lutto presentabile attraverso anche nuove figure di eroi, individuali e collettivi, come pompieri e poliziotti". Sempre in La morte e l'Occidente lei fa riferimento a tutta una produzione fantastica - fumetti, romanzi, film, videogiochi - che gioca con l'immagine dell'Apocalisse, in qualche modo esorcizzandola: una sorta di valvola di sfogo, o una nuova forma di addomesticamento della morte. Ma che succede quando la realtà supera in orrore l'immaginario fantastico? "È effettivamente notevole constatare che lo scenario applicato a Manhattan non ha niente di originale né per chi come me ha fatto ricerche sulla morte, né per il vasto pubblico - più di giovani che di vecchi - che è stato coinvolto nello spettacolo mediatico dell'Apocalisse. Secondo il modello americano, quello che in misura maggiore influisce su questo mercato, il filone catastrofista si risolve in un happy end grazie alle cure di un eroe ordinario o di personaggi dai poteri straordinari. Si può dunque concludere che i kamikaze non avevano niente da inventare - se non dirottare un Boeing - perché la loro piéce era stata largamente anticipata. Ci si può domandare fino a che punto questa banalizzazione della catastrofe abbia contribuito da una parte ad anestetizzare i consumatori, dall'altra a diffondere un'ideologia del bene e del male di cui il modello americano è l'esclusivo riferimento. Che cosa accade se la realtà va oltre la finzione? Lo storico si guarda bene dal rischiare di mettersi in quella prospettiva. Per lo meno gli storici seri che non credono alla fine della storia".


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Date: 25 Sep, 2001 on 08:33
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