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Scuola, siamo quasi all'anno zero
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da Il Manifesto
Giovedì, 19 Luglio 2007

Scuola, siamo quasi all'anno zero
La nostra scuola non ha saputo formare perché non ha individuato gli strumenti per realizzare una formazione di massa e di qualità. Da qui si riparte per intervenire. Urgentemente

Alba Sasso

Non so se ricordate un recente film di Lucchetti sulla scuola. Quando agli alunni venne chiesto di «disegnare» la loro scuola ideale disegnarono un edificio bellissimo. Mancavano solo le aule e gli insegnanti.
Nella passione e nell'entusiasmo che lo contraddistingue, e lo dico con grande stima e affetto, Luigi Berlinguer ha fatto un po' la stessa cosa. Ha scelto, dichiarandolo, di cancellare dalla sua analisi i soggetti concreti e le forze in campo (politica, mondo della cultura, insegnanti, studenti e via dicendo).
Ma l'assunto da cui parte è sacrosanto. In tutti questi anni la scuola italiana nonostante le riforme, che pure ci sono state, continua a essere una scuola di classe. Che seleziona anche per via del suo impianto culturale.
Certo il nodo dell'impianto culturale è stato appannato in questi anni da un accanimento sull'ingegneria istituzionale del sistema scolastico. Ma il tema resta. Lo stesso Berlinguer sollecitò nel 1997 alla commissione dei 40 saggi una riflessione su questo. «Ci chiediamo e vi chiediamo cosa sia doveroso insegnare nella scuola che si affaccia nel nuovo millennio (...). Aiutateci a pensare al territorio(...); all'insieme, non ai singoli elementi».
E già negli anni precedenti si era lavorato sul sapere della scuola con i programmi della media, dell'elementare, con gli orientamenti della scuola dell'infanzia, con il progetto Brocca.
Ma continuavano a pesare come macigni, soprattutto per coloro che si impegnavano per «l' equità e la qualità» della scuola italiana le accuse di Pasolini e poi di Don Milani. Perché continuavano a essere vere. Perché l'elevamento dell'obbligo scolastico (scelta politica - e sottolineo politica) di grande lungimiranza aveva avuto un limite. Poi parzialmente corretto nel decennio successivo. Quello di aver aperto ai «Gianni» una scuola pensata e organizzata per i «Pierini».
Una scuola insomma che «si prendeva cura dei sani e abbandonava i malati». Il costante tasso di dispersione della scuola italiana dice Luigi Berlinguer non nasce solo dalle differenze censitarie e culturali delle famiglie, ma anche da un impianto metodologico didattico arretrato, autoritario, calato dall'alto. Ma perché il dibattito su come dovesse cambiare la scuola tutta, nella sua struttura profonda, ha avuto l'andamento di un fiume carsico? Perché è stato considerato sempre tema «altro» rispetto alla struttura e all'organizzazione stessa della scuola? E perché infine, la discussione sull'impianto culturale della scuola dimenticava di parlare spesso e volentieri di quelle che Tullio De Mauro chiama le retrovie del sistema: dalla drammatica situazione dell'analfabetismo e dell'analfabetismo di ritorno degli adulti nel nostro paese, alla mancanza di una rete capillare sul territorio di strumenti di diffusione della cultura (biblioteche e altro)?
Questo insieme di domande fa emergere la crudezza di un nodo sostanziale: la realtà di una scuola che non ha saputo formare tutti quelli che ha accolto, proprio perché non ha saputo individuare strumenti di sistema e strumenti culturali per realizzare una formazione di massa e di qualità. Questo problema ha tanto più rilievo in quanto, di fronte alle difficoltà che si sono manifestate con grande evidenza, negli ultimi decenni si è registrato un salto all'indietro. Il gentilianesimo, superato negli obiettivi dichiarati e nell'ordinamento, si è preso le sue vendette e nel dibattito, ma anche nell'iniziativa sia di centrosinistra, sia di centrodestra - sia pure con diverse accentuazioni - è riaffiorata la tentazione di risolvere il problema per la via più semplice. Con un ritorno al passato, attraverso la restaurazione di un secondo canale dell'istruzione per i meno dotati. Con questo orientamento ricorrente, che nasce dall'incapacità di risolvere un problema e da una sconfitta, bisogna fare i conti una volta per tutte. E qui si aprono due grandi questioni. La prima: una scuola che voglia creare i presupposti di una cultura comune per una intera nuova generazione ha bisogno di più strumenti e di più risorse. Deve sapere e potere enucleare al suo interno forme di sostegno che permettano a chi entra in classe con un bagaglio culturale più leggero di tenere il passo e di guadagnare terreno. Così come bisogna che un'attività di formazione permanente contribuisca a creare uno scenario entro il quale può essere più facilmente ipotizzata una istruzione più alta per tutti. Ora le nozze non si fanno con i fichi secchi. Mentre in questo decennio la quota di risorse destinata all'istruzione sul Pil ha conosciuto un decremento costante con picchi di maggiore o minore intensità.
Il pendant di tutto questo è stato proprio l'accanita riproposizione di una separatezza tra canali formativi. La scuola del «conoscere e teorizzare», «quella del fare e dell'operare» (cfr. documenti Moratti).
Ma nel mondo, nella società, nei mestieri e nelle professioni non esiste un sapere significativo che non incorpori anche abilità pratiche, operative, così come non può esistere un sapere, una competenza professionale responsabile, che non incorpori un sapere teorico e che non faccia riferimento a una consapevole visione del mondo e della società. E allora la scuola tutta deve ripensare il suo sapere, il suo modo di essere, di lavorare. Sapere e saper fare insieme, per ogni percorso formativo.
Perché si tratta di rispondere a bisogni nuovi di apprendimento, che nascono appunto da quei cambiamenti profondi, determinati nel nostro presente e nel nostro futuro dalla società dell'informazione e dallo sviluppo della civiltà scientifica e tecnica.
Dobbiamo cominciare a chiederci allora come produrre conoscenza nella scuola che vive nella società della moltiplicazione dei codici e degli alfabeti, nella società dell'incontro/scontro tra culture, nella società del veloce sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e del costante ridefinirsi del sapere tecnologico.
Ma ripensare l'asse culturale e formativo della scuola, dell'intera scuola dai licei, ai tecnici, ai professionali, significa superare anche nella scuola una obsoleta divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica. Può esistere oggi una cultura umanistica, un «scienza dell'uomo», incapace di alimentarsi dei messaggi, concetti, acquisizioni che derivano da un procedere della ricerca scientifica (neuroscienze, biologia, genetica...) che sempre più affronta argomenti intimamente legati alle domande essenziali della vita, e può esistere una cultura scientifica incapace di pensare i «problemi umani e sociali che pone»?
E infine, se pensiamo che la scuola debba abituare a «una consapevole criticità», a praticare il dubbio e la curiosità, a collegare l'esperienza alla riflessione, ma anche a costruire il senso di sé e del mondo, occorre individuare discipline, intrecci tra discipline, e all'interno dei campi disciplinari contenuti, approcci, concetti più fecondi di altri. Andando nella direzione di accorpare saperi piuttosto che moltiplicare discipline. E' un tema che riguarda tutti gli indirizzi, tutti i percorsi formativi.
E di queste e di tante altre cose, suggerite dal dibattito riaperto da Luigi Berlinguer, bisogna discutere, collegandole strettamente alle questioni di ordinamento, di struttura, di organizzazione del lavoro. Alle questioni metodologiche e didattiche. Senza artificiali «prima e dopo».
Val la pena provarci. Perché la partita in gioco è decisiva. Senza la capacità di garantire livelli diffusi di buona istruzione al più alto numero di cittadini, garantendo equità e inclusione, in sostanza democrazia, i mali della scuola rimarranno sempre gli stessi e il sistema non produrrà mai effetti positivi né per i singoli né per il paese.


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Date: 19 Jul, 2007 on 10:14
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