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Subject  :  Il Grande fratello non è uno spettacolo
Author  :  edscuola redazione@edscuola.com
Date  :  03 Jun, 2003 on 06:48
da Il Corriere della Sera
3 giugno 2003

ELZEVIRO Tecnologia e privacy
Il Grande fratello non è uno spettacolo

di CLAUDIO MAGRIS

D i recente Stefano Rodotà ha segnalato, con allarmata preoccupazione, la crescente violazione della privacy, di ogni aspetto e momento anche più personale dell’individuo e della sua vita, frugata, controllata e registrata in ogni dettaglio, anche e soprattutto grazie agli strumenti sempre più sofisticati offerti dalla tecnologia. L’incubo di Orwell sembra realizzarsi ben al di là delle pietose e stucchevoli trasmissioni televisive quali Il Grande fratello; forse siamo tutti sorvegliati senza saperlo e le nostre vite sono già narrate e descritte, sin nei minuti particolari, nelle voci di un’invisibile enciclopedia telematica. Se potessimo democraticamente consultarla, potrebbe anche esserci utile, specie quando l’età inizia a fiaccare la nostra memoria; potremmo ad esempio sapere come si chiamava e cosa sapeva fare la compagna di una nostra indimenticabile ma dimenticata notte d’amore, di cui non ricordiamo più niente; potremmo ritrovare le obliate idee politiche e religiose che professavamo tempo fa. Secondo alcuni, questi archivi enciclopedici contengono già le bobine del film completo della nostra vita, compreso quel che ci succederà negli anni a venire; se i potenti che ci controllano ci permettessero di consultarli, potremmo conoscere pure la fine dell’amore che stiamo vivendo, l’ora, il luogo e il modo della nostra morte. Fantasie a parte, il più grande risultato della tecnologia dell’informazione è la riuscitissima violazione della privacy. Infatti, a parte queste registrazioni, queste spiate e queste tracce gelosamente conservate di ogni nostro passo, l’informazione - che pur dispone di strumenti straordinari, inimmaginabili sino a pochissimo tempo fa - non è mai stata carente e fallimentare come oggi. Di quel che succede nel mondo sappiamo in realtà pochissimo: ad esempio non sappiamo, non ci viene detto cos’accada in Afghanistan, quali forze e gruppi controllano quali vallate, quale sia l’effettiva realtà del suo governo; non sappiamo veramente cosa - e come - sia successo nell’attentato dei ceceni nel teatro di Mosca finito con uno sconquasso ancora imprecisato. L’elenco potrebbe continuare a piacere, anche senz’addentrarsi nel blackout o nella deformazione dell’informazione esplicitamente organizzati nel caso di tanti eccidi, scontri, catastrofi, lotte politiche in cui alcune delle parti in causa sono ridotte al silenzio e i fatti sono alterati sino al punto di dissolversi, di non esistere più, secondo la grande intuizione di Nietzsche: «Non esistono fatti, solo interpretazioni». Viviamo in un’epoca mirabile sotto molti aspetti, ma di enorme, incontrastata menzogna, d’irresistibile alterazione e cancellazione della verità.
Questo fenomeno ha dei lati drammatici e talora tragici, ma anche comici. C’è una violazione della privacy dagli effetti molto meno gravi ma comunque fastidiosi, anche se buffi, che si rivela nell’assoluta disinvoltura con cui ci si appropria del nome altrui, se questo nome ha un minimo di notorietà. Non occorre essere divi o leader trascinatori di folle per perdere, di fatto, ogni diritto ed ogni controllo non solo sull’uso e abuso del proprio nome, ma anche sulla veridicità di ciò che viene riferito, senz’alcun fondamento, sulla persona. Anche l’individuo più modesto e meno noto, se viene considerato, sia pure in misura minima, una persona pubblica, si vede continuamente attribuite cose che non s’è mai sognato di fare; apprende dai giornali di far parte di comitati di cui sino a quel momento ignorava perfino l’esistenza o ai quali aveva cortesemente ma fermamente rifiutato di aderire; talora scopre persino di ricoprire una carica importante, d’aver ricevuto una prestigiosa nomina, d’aver patrocinato un’iniziativa eclatante. Legge il proprio nome tra i componenti di una giuria di cui non fa parte, viene a sapere che il giorno tale all’ora tale parlerà o ha parlato a un convegno del quale non ha ricevuto o ha declinato l’invito; gli arriva la notizia che egli aspira a qualche incarico speciale o che è in lizza in qualche gara. All’inizio il malcapitato reagisce, protesta, smentisce, rettifica, cerca di ristabilire la verità della sua povera vita come se si trattasse di appurare il testo autentico di un controverso passo del Vangelo. Poi capisce che tutta quell’informazione, cartacea e non, veritiera o fallace, finisce comunque equamente nel cestino o in altri luoghi meno decorosi e lascia perdere. S’arrende, spossato, all’invincibile manipolazione del vero. Una manipolazione, in questo caso, involontaria e innocente, a differenza dei tenebrosi intrighi che coprono delitti di Stato, crimini di potenti e altre infamie o che diffondono falsità per raggiungere o conservare il potere. C’è ovviamente chi ha interesse ad insabbiare la ricerca dei colpevoli di una strage, ma nessuno ha veramente interesse ad annunciare falsamente la partecipazione al convegno di un rispettabile, trascurabile cittadino.
In questo caso la falsificazione è gratuita, pura e genuina, innocente; nasce da un disinteressato amore del falso, da una schietta passione dell’approssimato o dell’imprecisione, da una sincera indifferenza alla verità. Certo, chi rientra o viene fatto rientrare tra le persone «pubbliche», anche se fa parte delle ultime file di tale schiera, ha un po’ meno diritto alla privacy degli altri, ma dovrebbe aver diritto alla veridicità di ciò che gli viene attribuito. I parchi pubblici, a differenza di quelli privati, sono aperti a chiunque ha voglia di entrarvi per passeggiare. Ma anche nei parchi pubblici è vietato calpestare le aiuole e far la pipì sul prato.


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