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Aggiornamento «facoltativo» per gli insegnanti
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1. Aggiornamento «facoltativo» per gli insegnanti
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da Il Corriere della Sera
9 settembre 2003

Aggiornamento «facoltativo» per gli insegnanti
L’INCHIESTA

L’aggiornamento dei professori? Facoltativo e non pagato. Nella terza puntata dell’inchiesta del Corriere sul mestiere di insegnante, viaggio nella formazione: corsi di abilitazione, indirizzi pedagogici e scuole di specializzazione. Molti docenti tendono a non seguire corsi di aggiornamento, dicono gli esperti, «perché comunque la loro carriera seguirà binari prefissati».


L’aggiornamento dei prof? Facoltativo e non retribuito

«Di fronte alle innovazioni o le ignori o ti sacrifichi». «Solo un bonus di 35-40 euro per comprare libri e riviste»

Una strada in salita per conquistare una cattedra sempre più sfuggente. E poi, una volta di ruolo (ma anche nei lunghi anni di precariato), il problema dell’aggiornamento. Essere insegnanti in Italia, oggi, significa anche questo: fare i conti con una società che cambia, tenere il passo con le esigenze degli studenti, tra nuove tecnologie e sostegno all’handicap, lingue straniere e innovazioni scientifiche. Una formazione continua e permanente, ma assolutamente libera: nel senso di non obbligatoria e, soprattutto, non retribuita. E la scelta di aggiornarsi diventa sempre più la scelta di chi, tra i docenti italiani, ancora vive il proprio mestiere come una vocazione.

«AGGIORNAMENTO SELVAGGIO» - Volendo indicare una data, la «questione aggiornamento» si apre nel lontano 1995, con il contratto nazionale dell’èra Berlinguer. Gli insegnanti dovevano fare 50 ore di aggiornamento diluite in 3 anni di permanenza nella prima fascia di retribuzione, per poter passare alla seconda. Una clausola che si ripeteva più o meno analoga per i successivi «scatti». Risultato: un boom incontrollato di lezioni di teatro, arte della ceramica, musicoterapia e chi più ne ha più ne metta. Un vero e proprio «arrembaggio», fortunatamente di breve durata: nel 1997 il contratto cambia, l’aggiornamento non è più obbligatorio ma volontario, si chiede un riconoscimento ufficiale per gli enti che vogliano proporsi come «formatori» a fianco di università, scuole e istituti nazionali o regionali per l’educazione. Oggi sopravvive ancora qualche residuato della vecchia deregulation : basta spulciare nell’elenco autorizzato per il 2002/2003 per trovarsi di fronte a improbabili corsi di grafologia o a titoli come «Lo sci nella scuola riformata», «La vela e l’educazione ambientale nell’arcipelago toscano», «Il gioco del golf». Viene da chiedersi quali istituti dispongano dei fondi per noleggiare una barca a vela o anche solo un campo da tennis (senza dimenticare le racchette), quando in tanti casi mancano perfino le palestre. Ma, per quest’anno scolastico, il ministero ha destinato 32.556.519 euro alla formazione e sono molte le scuole che, grazie alla legge sull’autonomia, organizzano corsi mirati a risolvere problemi dell’istituto e del territorio. L’unico neo resta la mancanza di obbligatorietà.

UNA SCELTA PERSONALE - «Purtroppo l’aggiornamento è assolutamente facoltativo, lasciato alla disponibilità e alla sensibilità del singolo insegnante», ammette Daniele Vaccari, 39 anni, insegnante di italiano, storia e geografia in una scuola media del Bergamasco. «Non c’è nessun tipo di riconoscimento economico, se non un "bonus" annuale per l’acquisto di materiale, libri, riviste. Ma siamo nell’ordine, forse, di 35-40 euro. I corsi che ho fatto me li sono spesso pagati di tasca mia». Tutto, insomma, dipende da una scelta personale, anche se l’aggiornamento è per legge un «diritto-dovere» degli insegnanti: tanto che nel primo anno, dopo il passaggio di ruolo (l’«anno di prova»), è obbligatorio un percorso di formazione con tanto di tesina finale. Poi, formalmente, il nulla. Una svolta, per la verità, è arrivata con la riforma: soprattutto alla primaria, l’aggiornamento su informatica e inglese è oggi tra le priorità del ministero e degli insegnanti. Per il resto, ciascuno agisce come coscienza comanda: «L’anno scorso - racconta Daniele Vaccari - in classe avevo una ragazzina africana. Non mi era mai capitato di confrontarmi con una studentessa che non parlasse italiano, non sapevo come relazionarmi con lei. Allora ho deciso di frequentare un corso. Anche perché le scelte sono due: o te ne freghi, o lavori il doppio. In entrambi i casi, a fine mese, in busta paga non cambia niente».


LIBRI, INGLESE E COMPUTER - Il punto di partenza è chiaro: essere insegnanti oggi richiede una consapevolezza sempre crescente, un aggiornamento costante. C’è chi, per troppa fatica o troppi impegni, sceglie di «sorvolare»; ma c’è anche chi, e non sono in pochi, passa dall’altra parte della barricata e si rimette a studiare. Per rinfrescare un inglese non proprio fluido, si fa domanda per i corsi all’estero del ministero: «Pochissime borse di studio, ma le domande sono sempre tante», dicono dall’amministrazione. Il «bonus» di 35 euro serve anche per abbonarsi a riviste specializzate: La scuola italiana moderna , La scuola secondaria , e via elencando. Qualcuno si attacca al computer, impara a padroneggiare i nuovi software, legge le ultime novità sul sito del ministero o su Tuttoscuola.com . «Il punto è - riflette Carlo Scalco, 47 anni, che oggi insegna ad amare Leopardi e Giolitti agli studenti dell’Istituto Remondini di Bassano del Grappa - che a un insegnante si chiede davvero molto sotto un profilo formativo. E l’impressione è che anche oggi tanti corsi di aggiornamento non vengano fatti con questo scopo. Ma un professore dovrebbe leggere moltissimo, essere informato, vivere nel mondo». E invece? «E invece gli insegnanti non vengono realmente invitati a farlo. Godiamo di una libertà fittizia, che troppo spesso deriva dalla mancanza di una reale volontà di investire in iniziative serie». E allora ci si organizza da sé. «Io leggo tantissimo, dalla letteratura alla saggistica; seguo conferenze, soprattutto di storia. Solo per Internet - sorride il professor Scalco - non sono un buon esempio, anche se rispetto a qualche anno fa... Ma mia moglie, che lavora nelle telecomunicazioni, quando mi vede alle prese con un computer si mette a ridere».


LA NUOVA FORMAZIONE - Per chi vive la scuola come una vocazione, quindi, l’aggiornamento è, se non un chiodo fisso, un’esigenza primaria. E non è un caso se negli ultimi vent’anni anche il percorso per diventare insegnanti si è modificato in maniera consistente. Il vecchio maestro che arrivava in aula ancora imberbe, diploma di istituto magistrale in tasca, non esiste più. «Oggi chi vuole insegnare alla scuola dell’infanzia o nelle primarie - spiega la pedagogista Silvia Kanisza della facoltà di Scienze della formazione alla Bicocca di Milano - deve seguire i quattro anni di corso previsti dalla nostra facoltà, con un tirocinio tra le 480 e le 520 ore». Senza dimenticare i problemi dell’handicap: «Per fare l’insegnante di sostegno ci sono 400 ore aggiuntive. E in futuro apriremo il corso, ampliato a 800 ore, anche ai docenti». Complessivamente, dunque, 5 anni di formazione, che diventano 8 per chi affronta l’avventura delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario, le famigerate Ssis (il cui diploma abilita all’insegnamento, come un concorso ordinario). Anche qui il tirocinio è fondamentale: «Per fare questo mestiere - conferma Clotilde Pontecorvo, direttore della Ssis del Lazio - ci vuole una preparazione scientifica, ma anche pratica, operativa. Il nodo della formazione, sia universitaria che di aggiornamento, sta nel diventare buoni docenti, aperti all’innovazione e capaci di mantenere una tradizione culturale. Oggi fare l’insegnante è più difficile, ma è una sfida che va raccolta con entusiasmo».

Gabriela Jacomella


«Ottima preparazione teorica, poca pedagogia Ai docenti mancano strumenti per insegnare»

MILANO - «Perché tutti i professionisti seguono i corsi di aggiornamento? Perché un dentista, un ingegnere, un medico, un metalmeccanico e perfino un idraulico ogni anno frequentano seminari per imparare nuovi metodi di lavoro?». Lo dica lei.
«Per la ricaduta immediata sulla loro professione. Per migliorare la produttività a tutti i livelli, per essere sempre più qualificati».
E oggi questo non succede con gli insegnanti?
«I docenti mediamente non seguono corsi per il semplice fatto che, a dispetto della tanto proclamata autonomia, non possono assicurare una ricaduta del loro aggiornamento sui piani già stabiliti dall’ordinamento scolastico. In queste condizioni a loro non serve aggiornarsi, non sono invogliati a farlo. E, quando lo fanno, non riescono a concretizzare le cose che imparano».
Giorgio Porrotto è un formatore di insegnanti. Da quattro anni tiene il corso di «Politiche, legislazione e organizzazione scolastica» nella Ssis del Veneto. Ex preside di istituti prestigiosi come il liceo Parini di Milano (dove ha lavorato fino al 1998), da due anni è anche coordinatore dell’Osservatorio sulla scuola dell’autonomia della Luiss Guido Carli di Roma, nel Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche «Vittorio Bachelet». Dirige la rivista Avio Autonomie (Armando Editore), distribuita nelle scuole e nelle librerie: il prossimo numero sarà dedicato ai docenti.
Il pedagogista Umberto Margiotta considera l’insegnante un «intellettuale della formazione». La realtà è che chi insegna si sente sempre più un impiegato che un professionista. Come mai?
«Perché dovrebbe avere una discrezionalità decisionale infinitamente superiore a quella che ha. E, invece, l’autonomia scolastica non lo rende libero di decidere pressoché nulla. Il professore è vincolato ai programmi e all’organizzazione burocratica dei lavori. Non è un caso che si senta un impiegato e non un professionista. Il vero professionista è quello che si forma sulla base dei piani di lavoro concordati con i colleghi, segue i suoi corsi di aggiornamento per realizzare quel progetto che ha in mente di concerto con le altre persone con le quali lavora».
La scuola italiana, però, adesso sta puntando molto sulla formazione.
«Il risultato è che la nostra classe insegnanti è tra le migliori d’Europa, tra le più preparate. Ma è anche la più carente sul piano professionale».
Non è un paradosso?
«No. Il problema è che il piano disciplinare non può essere disgiunto da quello pratico. E l’Italia, come ha osservato Antonio Santoni Rugiu, capofila degli storici della nostra scuola, è l’unico Paese occidentale ad aver atteso il Terzo millennio per "insegnare agli insegnanti come insegnare", per prepararli professionalmente».
In che cosa gli altri Paesi ci avrebbero preceduti?
«Faccio un esempio molto pratico. All’estero esiste una formazione iniziale e una in servizio, o in itinere : la seconda, in genere, è considerata un aggiornamento e un approfondimento della prima. L’Italia, invece, almeno per quel che riguarda l’istruzione secondaria, è totalmente carente di entrambe».
Se le cose stanno così, gli insegnanti non avrebbero responsabilità.
«Infatti, è la politica scolastica italiana che ha sempre investito poco in formazione e aggiornamento, considerandoli degli accessori. Sono mancati, e mancano ancora, gli strumenti di base per entrare proficuamente in relazione con gli studenti».
Quali sarebbero?
«Mi riferisco alle scienze cognitive, alla psicologia dell’età evolutiva, in una parola alla scienza dell’educazione, alla pedagogia. Anche la riforma Moratti non si allontana di tanto da questa visione gentiliana ormai obsoleta: mi pare, infatti, che si vada sempre più verso il miglioramento delle competenze disciplinari».
E questo non è un bene?
«Certo, ma si perde di vista la sostanza. Quando due insegnanti della stessa materia si incontrano in corridoio la prima domanda che si fanno è: "A che punto sei con il programma?". La vera cosa da chiedersi è: "Dove sei con lo studente?". La scuola non è stata inventata per svolgere programmi, ma per formare individui. L’autonomia potrebbe essere un eccellente strumento per metterlo in pratica e, invece, anziché valorizzare le diversità punta solo a trasmettere contenuti e a garantire un insegnamento uniforme e uguale per tutti».
Qual è la sfida da vincere adesso?
«Oggi i saperi non sono più quelli di una volta. Le discipline si moltiplicano, si segmentano, la conoscenza spazia in campi impensabili soltanto pochi anni fa. I ritmi di sviluppo della ricerca valgono i secoli di ieri. La scuola deve trovare il modo di rapportarsi in termini nuovi verso l’evoluzione dei saperi. L’aggiornamento sarà sempre più fondamentale in tutte le materie. Purché l’insegnante, da vero professionista, possa contestualizzarlo nella sua realtà quotidiana».

Elvira Serra


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Date: 09 Sep, 2003 on 08:22
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