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POCHI SOLDI, STRUTTURE CARENTI E CHIUSURA AI GIOVANI
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1. POCHI SOLDI, STRUTTURE CARENTI E CHIUSURA AI GIOVANI
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da La Stampa
Martedì, 23 Aprile 2002

POCHI SOLDI, STRUTTURE CARENTI E CHIUSURA AI GIOVANI: LO STATO DI SALUTE DEL LAVORO SCIENTIFICO IN ITALIA NELL´ANALISI DI EDOARDO BONCINELLI

TRIESTE VIENE dalla fisica, è passato alla biologia, ha scoperto alcuni geni che regolano lo sviluppo dell´embrione e del cervello, è autore di libri di alta divulgazione che hanno avuto molti lettori. Ha persino voluto fare una esperienza di psicoanalisi. Per la varietà dei suoi interessi, Edoardo Boncinelli, sessant´anni, di origini toscane ma nato a Rodi, in Grecia, è tra i pochi scienziati italiani con una visione panoramica della ricerca e dei suoi problemi. Nelle varie discipline, ma anche in senso geografico: si è laureato a Firenze, ha lavorato all´Istituto internazionale di Genetica di Napoli, poi ha accettato una cattedra all´Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, dove ha anche diretto il Laboratorio di Biologia molecolare, da un anno è a capo della Sissa di Trieste, la International School for Advanced Studies.


Professor Boncinelli, Trieste e la Sissa sono un buon punto di osservazione: siamo in una terra di confine, in un ambiente internazionale. Di qui si può guardare all´Italia con un certo distacco. Schiettamente: come sta la ricerca nel nostro paese?

«Diciamo che qui alla Sissa mi trovo in un´isola felice. Ma mi sento pur sempre inserito nella ricerca italiana. Bene, la nostra ricerca ha alcuni - pochi - poli molto avanzati, una classe intermedia non molto brillante e un´ampia zona grigia, dove si fa lavoro di routine. Soldi, pochi. Strutture, carenti. E soprattutto poca fiducia nella ricerca da parte dei politici. Poca attenzione al futuro dei giovani».

Per un paese come l´Italia, tra i sei più sviluppati del mondo, ma anche con un Meridione arretrato, molti disoccupati al Sud, un bilancio vacillante, qual è la percentuale giusta da investire nella ricerca? Eravamo a stento risaliti un poco sopra l´uno per cento del prodotto interno lordo, ora siamo di nuovo all´uno tondo.

«Considerando i ritardi, anche se passassimo dall´uno al due, non risolveremmo granché. Dovremmo fare un salto: almeno per qualche anno, bisognerebbe passare al 3-3,5 per cento perché dobbiamo colmare un distacco che ormai è strutturale. Solo così si avrebbe un rilancio. A patto che si apra finalmente ai giovani. Una scelta di questo genere è necessaria dal punto di vista etico prima ancora che politico. Pensi che spesso per i giovani nei centri di ricerca non c´è neppure lo spazio fisico per accoglierli. Siamo al punto che si deve ripartire dall´edilizia».

L´Italia, grazie alla scuola di Fermi, ha fatto notevoli e utili investimenti nelle scienze fisiche, ma forse questo ha danneggiato le scienze della vita. In quali settori siamo competitivi sul piano internazionale?

«La fisica in Italia ha più tradizione, e in tutto il mondo riesce a farsi dare più soldi. Però, attenzione: i nostri fisici teorici sono all´altezza dei migliori colleghi stranieri ma nel campo sperimentale, dove occorrono attrezzature d´avanguardia e dove il lavoro è sudore, la nostra fisica non è eccelsa. La biologia soffre di entrambi problemi: è essenzialmente sperimentale e non ha una tradizione come la fisica. I due settori nei quali siamo più forti sono le neuroscienze e l´immunologia. Siamo carenti invece in biologia molecolare, almeno quella più "hard", e in ingegneria genetica. In questi settori non è che non si lavori, abbiamo anche cercato di ricuperare il terreno perduto e in parte ci siamo riusciti. Ma noi camminiamo, il mondo corre. In biologia molecolare e in genetica grandi cose succederanno improvvisamente, nei prossimi anni, e noi rischiamo di non prendere il treno. Così, nonostante tutte le rincorse, il gap tra noi e i paesi più avanzati continua a crescere».

Pubblico e privato: quali ruoli nella ricerca scientifica?

«La ricerca di base, la cosiddetta ricerca pura, deve essere pubblica, finanziata dal governo e deve godere di una libertà totale, assoluta. Succede in tutti i paesi del mondo, anche negli Stati Uniti. La vocazione del privato è invece la ricerca applicata, nel quadro di una organizzazione nazionale. Airc, Telethon, certe aziende funzionano bene. Ma non si può fare il tetto se non ci sono le fondamenta, cioè la ricerca di base».

In Italia è equilibrato il rapporto tra ricerca pura e ricerca applicata?

«No, è a sfavore della ricerca pura benché a volte, a fin di bene, si travesta da ricerca applicata anche quella di base».

L´età dei nostri ricercatori: troppo vecchi per essere creativi?

«Trionfa la gerontocrazia. Eppure i matematici dànno il meglio verso i 25 anni, i fisici dai 30 ai 35, i biologi intorno ai 40. Ma è importante anche l´età delle attrezzature. E´ inutile che siano di livello "discreto". O sono d´avanguardia, allo stato dell´arte, o non servono. Per questo occorre cambiarle ogni 3-4 anni».

Uno studio europeo appena pubblicato dimostra che i nostri ricercatori hanno una produzione media di pubblicazioni sulle maggiori riviste internazionali piuttosto buona: siamo al sesto posto, davanti a Francia e Germania, sopra la media dell´Unione. Abbiamo quindi esclusivamente un problema di quantità, cioè ci servono soltanto più ricercatori e più finanziamenti?

«Ho qualche dubbio. Vede, le statistiche hanno il loro valore, ma misurano le situazioni medie. Non sono applicabili alle frontiere della scienza. La ricerca d´avanguardia, quella che conta, procede a guizzi, a balzi improvvisi, e quelli nelle statistiche non si vedono. Però sono la cosa che conta davvero».

La fuga dei cervelli italiani all´estero. E´ una realtà ancora oggi o un mito romantico duro a morire anche nel mondo globalizzato?

«In parte la fuga esiste. Oggi certamente è più limitata rispetto a qualche decennio fa. Non credo però che ciò dipenda dal fatto che i centri di ricerca nazionali hanno aumentato il loro potere di attrazione. Dipende piuttosto dal fatto che qui si vive bene, andar via costa sacrificio. C´è meno fuga di cervelli perché c´è meno eroismo...».

Nella politica della ricerca, vede una differenza tra i governi che si sono alternati negli ultimi vent´anni?

«Nessuna differenza sostanziale, in tutti vedo disinteresse verso la scienza. E´ una questione culturale. Per i politici italiani la scienza non fa parte della cultura. Basti pensare a come è ridotta la nostra Università...».

Se fosse ministro della ricerca che cosa farebbe?

«Beh, diciamo che incomincerei proprio dalla riforma dell´Università».

E come la cambierebbe?

«Lei mi vuole morto! Diciamo che cercherei di instillare in tutti l´idea che insegnare e fare ricerca non possono essere disgiunti, almeno in campo scientifico. Chi non fa ricerca può soltanto trasmettere cose che sono già scritte nei libri. E quindi cose vecchie. A che serve, se stiamo parlando di scienza d´avanguardia? L´Università come semplice trasmissione di sapere è la morte della scienza».

L´ultimo Eurobarometro, un sondaggio condotto in tutti gli Stati dell´Unione su 16 mila persone, ha rivelato che gli europei hanno poca fiducia negli scienziati e che fanno una gran confusione tra biotecnologie, morbo di «mucca pazza», persino l´incidente nucleare di Cernobil, come se la scienza fosse qualcosa di pericoloso, da guardare con sospetto. Di chi è la colpa? Degli scienziati che non comunicano abbastanza, dei mezzi d´informazione, di una scuola inadeguata?

«Negli ultimi anni la scienza ha messo l´acceleratore e ha distanziato la cultura media della gente. Questa è una prima spiegazione. Paradossalmente, poi, si è diffusa la convinzione che le cose più importanti ormai sono già note, che c´è poco da scoprire. La scarsa cultura scientifica ha fatto attecchire l´idea che le biotecnologie sono un rischio. In questa situazione non c´è da stupirsi se le facoltà scientifiche registrano un continuo calo delle iscrizioni».

Questione soldi: come distribuirli?

«Prima di tutto non a pioggia, cioè qualcosina a tutti, come quasi sempre si è fatto. Bisogna servirsi di comitati internazionali che verifichino i progetti e poi seguire le loro indicazioni, non considerarle una formalità da espletare e poi si fa come si vuole, "all´italiana". Occorre poi introdurre dei differenziali anche di 50 volte tra i progetti eccellenti e quelli di basso profilo. Solo così la ricerca avrà punte avanzate».

Piero Bianucci


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Date: 23 Apr, 2002 on 09:00
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