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Ricerca e biotech, la strategia di De Maio «Una rete di geni per le scienze della vita»
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da Corriere della Sera
Domenica, 27 Marzo 2005

Ricerca e biotech, la strategia di De Maio «Una rete di geni per le scienze della vita»

Il coordinatore regionale: meno burocrazia e più fondi per l’apertura di nuovi centri «E’ importante l’asse tra università e industria. Richiamerò cervelli anche dall’estero»

DAL NOSTRO INVIATO
NIZZA MONFERRATO (Asti) - Una pausa all’indomani della nomina a coordinatore regionale della ricerca. Tra le verdi colline del Monferrato, nella casa di campagna all’ombra di un noce troppo alto. Adriano De Maio, classe 1941, ex rettore del Politecnico di Milano, attuale «Magnifico» dell’Università Luiss di Roma, si gode pochi giorni di riposo. Tra passeggiate in giardino e letture davanti al caminetto.
Il nuovo incarico ricevuto dal Pirellone significherà il suo ritorno a tempo pieno nell’amata Lombardia. Un sogno che si realizza. Per il piacere di stare a casa, ma anche per il lavoro che lo aspetta.
Sarà il supermanager regionale responsabile di un «nucleo di progetto» che coinvolgerà gli studiosi della biomedicina e delle innovazioni tecnologiche, per la definizione di una strategia di sviluppo della ricerca sul territorio.
Quando comincia?
«Già fatto. Non vedevo l’ora di dedicarmi al progetto».
Perché proprio lei?
«L’incarico è la naturale evoluzione di un lavoro cominciato nel 1996, quando fui nominato presidente dell’Irer, Istituto regionale per la ricerca: l’ente aiuta la giunta a individuare i settori più interessanti per i finanziamenti».
In che cosa consiste il progetto?
«E’ piuttosto complesso. Si divide, infatti, in diverse fasi».
La prima.
«Selezionare i settori dove conviene fare ricerca».
Vale a dire?
«Significa individuare i progetti più coerenti in un contesto internazionale, che offrono prospettive di sviluppo e di applicazione concreta».
Un esempio.
«In generale, le scienze della vita: dall’ingegneria tessutale, quella che ricostruisce pezzi del corpo, alla farmaceutica, allo studio di nuovi materiali. Poi la neuroscienza, la proteomica, la genomica. Scendendo nello specifico, credo che l’Alzheimer sia una di quelle malattie che meriterebbero grande impiego di risorse. Altrimenti in futuro potremmo correre il rischio di ritrovarci fisicamente belli e robusti, ma fuori uso a livello di cervello».
La seconda fase.
«Una volta selezionati i settori e i campi di applicazione, fare in modo di concentrare le risorse. Gli investimenti nella ricerca, si sa, sono scarsi in Italia. Quel poco che abbiamo è necessario far sì che venga utilizzato nella maniera più efficace. Questo implica anche un modo di gestione intelligente. Inutile, per esempio, spendere soldi in un progetto se non viene superata la massa critica, cioè quel livello tale affinché ci sia un risultato utile. La seconda fase comporta anche la creazione di una rete di collegamento dei centri di ricerca tra loro e con il sistema produttivo. Se in due posti si lavora sul medesimo progetto, perché non metterli insieme? Non soltanto in via telematica, ma anche materialmente. Poi scatta la terza parte».
Cioè?
«Richiamare sul territorio le risorse più importanti: soldi e cervelli. Elementi che oggi sono sempre più carenti. Ebbene, io dico che è inutile piangerci addosso. Cerchiamo invece di attrarli: italiani e anche stranieri».
E come si fa?
«Migliorando la qualità della ricerca. Per questo occorre concentrare le risorse in maniera da raggiungere risultati. Diventare bravi, accogliere centri di eccellenza, è infatti una condizione per attirare soldi e cervelli. Ma non è tutto».
Che altro?
«Occorre introdurre facilitazioni per l’apertura di centri di ricerca: in pratica, meno burocrazia. E poi ci vogliono le agevolazioni fiscali. Finora i centri di ricerca hanno pagato addirittura l’Irap».
Qual è il suo modello?
«Non ce n’è uno esattamente. Ma ho tanti ricordi dei tempi dell’Università. Penso spesso a quando ero al quarto anno del Politecnico, mi sono laureato in ingegneria elettronica. Allora Giulio Natta vinse il premio Nobel per la chimica: aveva inventato la plastica. Insomma, quelli erano anni in cui Università e industria erano collegate. Adesso le cose sono cambiate».
E poi?
«Fare i ricercatori in Italia è diventato quasi svilente. I cervelli scappano, non solo per una questione di soldi, ma anche per un fatto culturale. All’estero hanno più libertà e autonomia: ricevono i budget e poi rispondono dei risultati».
Quindi?
Bisogna intervenire collegando i centri di ricerca alle attività produttive e restituendo dignità ai ricercatori».
Quali risultati si aspetta?
«Credo nel mio progetto, perché mi sono sempre occupato di strategie aziendali e di gestione dell’innovazione, nonostante la laurea in ingegneria».
Bisogna fare ricerca soltanto se conviene, dunque?
«No. Dico che abbiamo bisogno di ricerca pura, ricerca applicata e sviluppo. L’una non può esistere senza l’altra».
Non pensa ai soldi?
«Certo. Sono necessari. Ora si stanno definendo i fondi regionali per il nostro progetto. Dovrebbero essere potenziati. Poi arriveranno quelli del Miur e del Cnr».
E se dovesse cambiare la giunta?
«Vedremo. Ma sono fiducioso: la ricerca non è né di destra né di sinistra».
gmottola@corriere.it

Grazia Maria Mottola


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Date: 27 Mar, 2005 on 09:57
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