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Intervista al celebre teorico dell’ermeneutica
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1. Intervista al celebre teorico dell’ermeneutica
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da Il Corriere della Sera
1 marzo 2003

Intervista al celebre teorico dell’ermeneutica che ha appena compiuto novant’anni. Il mito, il potere, l’uso della forza: un giro d’orizzonte sull’inizio del secolo

«Dobbiamo dare una possibilità all’intellighentsia islamica Trovo entusiasmante che la filosofia sia scesa nelle strade»

PARIGI - I suoi novant'anni, compiuti l’altro ieri, sono luminosi. Il filosofo Paul Ricoeur conserva intatta la giovinezza del pensiero. Parla come se la sua curiosità fosse un incendio senza confini. Forse è aiutato in questo dallo spirito che aleggiava nelle università americane dove ha insegnato a lungo. Le sue lezioni alla Sorbona e a Nanterre, culla del Sessantotto, erano sempre affollate. Ricoeur è amato dai giovani che hanno divorato uno dei suoi libri di successo, La mémoire, l'histoire et l'oubli (La memoria, la storia e l'oblio). Ha portato in Francia la fenomenologia di Husserl, è sempre stato un nemico delle mode e delle scuole e la sua ricerca si è soprattutto orientata sul male e sulla colpevolezza. Dev'essere un riflesso del suo «essere protestante». Non c'è spiaggia dell'humanitas dove Ricoeur non sia sbarcato: la storia, il linguaggio, la poesia, la psicoanalisi, il narrare come testimonianza e infine la morte.
Dice: «Come si espresse Montaigne, io sto vivendo una sorta di assuefazione alla morte, da una parte accettandola come grande livellatrice: il filosofo muore come tutti gli altri; dall'altra, sentendo un intenso amore per la vita: desidero vivere, mi fa piacere vivere. Perciò debbo lottare contro la tristezza, anzi contro il compiacimento della tristezza, che è quasi un peccato, e contro la minaccia della noia che consiste nel dire: ciò che accade lo ho già visto. Non voglio fare della morte un atto di vita, ma voglio sentirmi vivo fino alla morte».
Dagli ultimi anni del Novecento, signor Ricoeur, c'è una straordinaria domanda popolare di filosofia. Dovrebbe essere un aiuto in tutti gli strati della società.
«La filosofia è scesa nelle strade, come nell'antica Grecia. Trovo tutto ciò entusiasmante. Gli uomini si sentono più padroni di sé stessi rispetto ai punti di riferimento tradizionali che sono riesaminati secondo una propria gerarchia di valori e di priorità; e poi la filosofia non indossa più soltanto la veste di professione universitaria, il discorso filosofico passa attraverso il giornalismo "illuminato" e raggiunge anche i bambini che si pongono domande elementari su sofferenza, vita, morte, ineguaglianza e ingiustizia. L'originalità della filosofia sta nel produrre domande e problemi inattesi. Adesso i grandi filosofi sono a portata di mano, un esempio fra i tanti un libro come Il mondo di Sofia di Gaarder. Inoltre, ogni essere umano appare come un centro di decisione e valutazione».
Ma il Male, come dice lei stesso, resta una «struttura storica contingente». Il nostro motore dev'essere sempre l'odio? Noi viviamo, probabilmente, gli ultimi giorni di un percorso verso il massacro. Avanziamo verso un'assurdità storica.
«Il terrorismo ha provocato un ritorno alla paura. Tutta la nostra civiltà occidentale è passata dall'ottimismo culturale di Locke, filosofo inglese del XVII secolo, al dominio della morte di Hobbes, anche lui inglese e dello stesso periodo. Un mondo, quello di Hobbes, dove regnano le "passioni tristi", come le chiamava Spinoza. I giorni dell'homo homini lupus, i giorni dell'uomo che è lupo per l'uomo. Noi ci distinguiamo dagli animali per la nostra crudeltà. Che l'uomo voglia far soffrire l'uomo e ricavarne godimento, ecco qualcosa di tipicamente umano. L'invidia, l'odio, il piacere della tortura: l'uomo cova le "passioni tristi" come fondo permanente. Hobbes si esprimeva ai tempi delle guerre di religione e dell'apparizione dei conflitti fra stati-nazione. Dunque, bisogna oggi distinguere tra precise condizioni storiche e ciò che io chiamo un'antropologia filosofica».
E il compito del filosofo?
«Mettere in relazione le forme congiunturali e la cattiveria dell'uomo. Da questo punto di vista la Shoah resta un riferimento assoluto».
Lei sembra affascinato da Hobbes.
«Sì, e mi domando se non ci sia nelle nostre motivazioni profonde qualcosa di morale, una specie di disponibilità all'amicizia fra gli uomini, che faccia da contrappeso alla guerra di tutti contro tutti, all'ergersi del mostruoso Leviatano, macchina, dio mortale e animale. A tale mito bisogna opporre il mito politico, per primo quello dei filosofi del diritto naturale e poi quello della filosofia politica liberale. Non è un caso se il mondo anglosassone è sfuggito al comunismo e al nazismo».
Bush la fa pensare al Leviatano?
«No, perché il sistema costituzionale lo impedisce. Il tedesco Carl Schmitt scrive: la sovranità è la capacità di decidere in una "situazione di eccezione". Non è un problema che riguarda solo Bush, perché tutti i capi di stato si creano un centro di decisioni estreme e sono loro che decidono qual è la situazione di eccezione. La nostra filosofia dello stato di diritto è sprovvista di mezzi per opporsi».
Di opporsi alla guerra... Ecco la presenza incoercibile del Male .
«In ogni caso gli intellettuali debbono resistere con tutte le loro forze all'idea di una guerra fra civiltà. E' la guerra di uno stato egemone come gli Stati Uniti che sarà appoggiato da una o più potenze. E poi non è una guerra contro la figura totale del Male. Se ci sarà un conflitto in Iraq, si dovrà fare appello alle "passioni benevole", all'aiuto umanitario, tenere sveglio il "fondo di bontà" dell'uomo perché il solo fatto che l'uomo esista esprime bontà».
E se guerra ci sarà, poi verrà anche il momento del perdono.
«Il problema non è di perdonare, ma di domandare il perdono. Ci sono dei momenti privilegiati in cui dei gesti simbolici ottengono un effetto. Penso al cancelliere tedesco Brandt che rende omaggio ai martiri del ghetto di Varsavia. Un gesto simbolico dà coraggio a chi lotta per la riconciliazione dei popoli. Noi abbiamo visto nascere in questi ultimi giorni un'opinione pubblica internazionale che fa riflettere sia sul problema della rappresentatività di quanti abbiamo eletto sia sull'aspetto singolare della "volontà del principe". Ma il cittadino non può fare la storia perché esistono gli altri gradi della struttura del potere, le elezioni, i conflitti tra minoranze e maggioranze, i centri di decisioni estreme e il nucleo degli "agenti" della strategia internazionale. Ciò che mi scandalizza di più è di prendere posizione nell'ignoranza di deliberazioni già sancite per la guerra. Mi sembra di essere come una sorta di scomunicato dalla "chiesa" delle volontà supreme. E' un gran brutto modo di governare il mondo».
Lei non immagina un Bush che chiede perdono inchinandosi alla Mecca ?
«No, non lo immagino perché la Mecca è un centro religioso e poi non si farà la guerra all'Islam come religione. Dobbiamo dare una possibilità all'intellighentsia islamica, all'Islam colto e degno della sua epoca d'oro tra l'XI e il XII Secolo, con i suoi pensatori e i suoi poeti. Sono gli arabi che hanno riscoperto i grandi testi di Aristotele».

La vita e le opere

Paul Ricoeur nasce a Valence (Drome) il 27 febbraio 1913. Dopo gli studi filosofici (università di Rennes e Sorbona), viene fatto prigioniero in Germania nel 1939 ed è lì che incomincerà a tradurre con Dufrenne Ideen I di Husserl. Numerose sono le università dove insegna, prima Filosofia morale, poi Storia della filosofia anche alla Sorbona. Dal ’69 al 1970 è rettore a Nanterre. Dalla sua sterminata bibliografia, alcuni saggi tradotti in italiano: Dal testo all’azione , Tempo e racconto , Sé come un altro (tutti editi da Jaca Book), Filosofia della volontà (Marietti), Dell’interpretazione (Il Saggiatore), Il giusto (SEI), Filosofia e linguaggio (Guerini e Associati).


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Date: 01 Mar, 2003 on 08:39
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