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La scuola come un parcheggio
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da Famiglia Cristiana
Mercoledì, 6 Settembre 2006

La scuola come un parcheggio

Troppi giovani trascorrono gli anni migliori della vita a rincorrere un "pezzo di carta", cui il mondo del lavoro dà poco peso. Che tipo di essere umano vogliamo promuovere?

Caro padre, secondo le più recenti indagini, un diciottenne su tre è praticamente analfabeta, ha grosse difficoltà a comprendere un banale testo scritto. I test di ingresso all’Università, oltre a essere una fonte di ilarità, sono un banco di prova della cultura dei diplomati: si va da Guglielmo Marconi scopritore delle Americhe ad Aldo Moro capo delle Brigate rosse, per arrivare a Silvio Pellico e Mazzini al soldo degli Austriaci per reprimere i moti risorgimentali italiani. In ambito letterario si va da Manzoni autore della Divina Commedia alla cedrata come opera minore del Tassoni. L’ortografia poi è un concetto astratto, difficilmente attuabile nella pratica quotidiana. La sintassi della lingua italiana è un privilegio destinato a una élite composta da scrittori, giornalisti, letterati e filosofi.

Sulla base di queste considerazioni, risulta illusorio pensare che la scuola superiore possa formare persone capaci di inserirsi in maniera proficua nel mondo del lavoro, perlomeno a livello dei cosiddetti "colletti bianchi".

Come logica conseguenza, il problema della formazione è completamente spostato sull’Università. Con quali risultati? Pessimi. Le statistiche più aggiornate sono desolanti: meno di un terzo degli iscritti al primo anno riesce a laurearsi. Due terzi, cioè oltre il 65 per cento, si perdono lungo il cammino.

Se si analizza nel dettaglio la situazione di quella ristretta fascia di studenti che arriva alla laurea, si scopre che la quasi totalità di essi consegue il titolo di studio ben oltre la durata legale del corso. La laurea è raggiunta mediamente a 28-29 anni. Ciò significa che molti giovani trascorrono la fascia d’età compresa tra i venti e i trent’anni persi nei labirinti accademici.

Se si considera il divario esistente tra il mondo produttivo e quello universitario, si può affermare a ragion veduta che troppi giovani trascorrono gli anni migliori dell’esistenza a rincorrere un "pezzo di carta" cui il mercato del lavoro attribuisce scarsa importanza. Ciò è dimostrato dallo stipendio medio di un neolaureato, che in genere non supera 800-900 euro mensili.

Tracciando un bilancio complessivo, il sistema formativo italiano è un perverso meccanismo che parcheggia i giovani dando loro diplomi e lauree con il sapore delle onorificenze: pezzi di carta nel senso più genuino del termine. D’altra parte, in Italia non si è mai voluto affrontare in modo serio il problema dell’occupazione giovanile: si preferisce diluirlo nel tempo con l’ausilio di una scuola superiore e un’università adibite a parcheggio.

Questo sistema torna molto utile a uno Stato che ha sempre utilizzato l’istruzione per smaltire la disoccupazione intellettuale. Nel nostro Paese vi sono più professori e maestrine che in ogni altra nazione europea. Nutro forti dubbi sull’utilità e le capacità didattiche di questa moltitudine di docenti. Poi ci si stupisce se l’Italia perde competitività e vi è recessione economica.

Forse i nostri uomini di governo e i politici in genere dovrebbero considerare che dietro il declino economico vi è quello socioculturale. I problemi non sono la globalizzazione o la concorrenza di Cina e India: il vero problema è di tipo antropologico. Che senso ha spendere un sacco di soldi e di risorse per un sistema formativo che è, al lato pratico, una presa in giro? La scuola e l’università adibite a parcheggio non servono a nulla.

Marco B.


Può stupire una lettera sulla scuola in Italia nello spazio dei "Colloqui col Padre", dedicato solitamente a tematiche religiose o morali. La giustificazione si trova in un’osservazione che Marco lascia cadere per inciso verso la fine della sua lettera, così informata e così lucida nell’analisi della situazione della scuola: si tratta – afferma – di un problema di tipo "antropologico". In parole più semplici, si tratta di decidere quale tipo di essere umano vogliamo promuovere.

La risposta ci proietta al di là delle questioni di politica dell’educazione (con il tema, di non secondaria importanza, del rapporto tra scuola privata e scuola statale), di economia (quanti soldi vogliamo dedicare all’istruzione, nell’insieme dei bisogni ai quali lo Stato deve far fronte, dalla salute alla giustizia, dallo sviluppo all’ordine pubblico) e di gestione amministrativa del settore: insegnanti, concorsi, programmi di riforma.

Anche un governo che ponesse l’istruzione al primo posto nell’agenda delle priorità, dovrebbe pure confrontarsi con quello che Marco chiama il "problema antropologico". È rimasta celebre la frase a effetto con cui il premier inglese Tony Blair ha presentato il programma di governo al suo primo mandato. Lo riassumeva in tre priorità: "education, education, education". Bene, ma qualcuno avrebbe potuto domandarsi: quali caratteristiche deve avere il bravo cittadino britannico, per dire che abbiamo portato a termine un buon progetto educativo?

Per rimanere in Italia, il governo passato aveva fatto proprio uno slogan che affidava all’educazione un compito riconducibile alle tre "i" di inglese-informatica-impresa. Obiettivi rispettabili, senza dubbio. Ma bastano per descrivere l’uomo che abbiamo in mente? L’inglese naufraga nel mare di una madrelingua ignorata o strapazzata. Se gli esempi che riporta il nostro lettore non bastano, un ampio campionario si può attingere dal libro di Bartezzaghi: Non ne ho la più squallida idea, raccolta dei quotidiani scivoloni su una lingua italiana mal posseduta. L’informatica è un grandioso strumento di comunicazione; ma perché si abbia qualcosa da comunicare e perché la comunicazione sia veritiera ci vogliono altre condizioni.

La cultura imprenditoriale, infine, è essenziale allo sviluppo; ma se vogliamo che lo sviluppo sia giusto, non possiamo favorire solo gli "spiriti animali" che inducono a guardare soltanto il proprio interesse, ignorando il bene pubblico e calpestando i diritti altrui.

Abbiamo trascurato di aprire un dibattito sulle questioni di fondo che quel progetto educativo implicava. Sono le stesse questioni che ci ritroviamo sul tavolo oggi, all’inizio di un nuovo percorso politico: quale tipo di cittadino intendiamo far crescere nelle nostre scuole? Per rispondere a questa domanda l’antropologia implicita nella visione religiosa dell’uomo diventa rilevante. Non si tratta di rivendicare nessuna esclusività. Soprattutto se pensassimo a delle ricette: nessuno ne ha. Ma punti di vista, sì.
E dall’integrazione dei diversi punti di vista può nascere un progetto condiviso.


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Date: 06 Sep, 2006 on 08:27
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